Dieci milioni di persone in Kenya, quasi un terzo della popolazione, vive in condizioni di insicurezza alimentare. In altre parole non è in grado di soddisfare il proprio fabbisogno giornaliero di cibo. Lo ha affermato venerdì scorso il presidente Mwai Kibaki annunciando che il paese si trova davanti a un disastro nazionale. Un’emergenza da 37 miliardi di KES (circa 360 milioni di euro) alla quale i donatori internazionali sono stati invitati a rispondere.Â
I fondi richiesti saranno impiegati nella distribuzione di cibo e acqua e, in misura minore, per interventi di rivitalizzazione del settore agricolo e per i programmi di supporto alimentare nelle scuole.
Intanto, per affrontare la situazione nell’immediato il governo sta importando derrate di mais e ha annunciato misure a supporto dei contadini per  migliorare la situazione già dalla prossima stagione di semina.Â
Le zone maggiormente colpite dalla penuria di cibo sono le aree marginali delle regioni orientale, nord -orientale, costiera e centrale come anche le aree pastorali e agropastorali della RIft Valley. Qui, nel distretto di Baringo, per non sentire i morsi della fame la gente è costretta a nutrirsi di erbe selvatiche e bacche velenose.
Alla base dell’attuale emergenza ci sono fattori climatici, come la scarsità delle piogge, ma anche l’inflazione e il rincaro dei generi alimentari sui mercati internazionali. A questi si aggiungono le conseguenze degli scontri elettorali del 2007 che hanno pesantemente danneggiato i raccolti delle zone più fertili del paese nella Rift Valley. Un’ulteriore causa sembrerebbe essere  la speculazione a opera di politici e uomini d’affari accusati di aver provocato nei mesi scorsi la penuria di mais e farina di granoturco causando l’aumento artificioso dei prezzi degli alimenti.Â
La crisi alimentare in Kenya, un problema ricorrente
Mwaura Nderitu, project coordinator per NECOFA Kenya, propone un’analisi della crisi che sta mettendo ben 10 milioni di kenioti a rischio di carestia.
«Diverse ragioni sono alla base dell’attuale penuria di cibo. Innanzitutto bisogna considerare i cambiamenti climatici e la siccità che ha colpito le zone centrali, costiere, le province orientale e nord orientale.
Il secondo fattore è da ricercare nella violenza post elettorale del 2007 che si è abbattuta proprio sulle zone del paese da cui provengono le maggiori risorse agricole: la Rift Valley, in particolar modo i distretti di Kitale, Eldoret, Nakuru, Molo, Kericho e Nandi, alcune aree del Kenya occidentale e Nyanza. A causa degli sconvolgimenti provocati dagli scontri il raccolto dello scorso dicembre è sostanzialmente mancato, interrompendo la catena produttiva nazionale. Le famiglie contadine appartenenti alle etnie “non desiderate” non hanno potuto seminare e, in più, diverse tonnellate del raccolto del 2007 sono andate bruciate. A oggi numerosi sfollati non hanno ancora accesso ai loro campi.
Inoltre, politiche poco lungimiranti e una scarsa pianificazione dei governi che si sono succeduti negli ultimi quarant’anni, hanno acuito progressivamente il problema fame. Il solo risultato della gestione della crisi è stato quello di dichiarare l’emergenza nazionale, in modo tale da attirare l’attenzione internazionale, mendicando cibo.
Anche la corruzione ha la sua parte di responsabilità in questa situazione. Nei mesi scorsi le riserve di granoturco sono state vendute al prezzo di Ksh. 1.750 al sacco (90 kg) a commercianti vicini all’establishment che hanno rivenduto il mais al prezzo rialzato di Ksh. 2.600. Questo ha fatto sì che un sacco di farina da 2 kg che nel dicembre 2007 costava 48 Ksh, ora venga venduto a 120 Ksh. Il governo aveva stabilito due prezzi diversi: 52 Ksh. per le fasce reddituali più basse e 72 Ksh. per tutti gli altri.
Come se non bastasse, il Kenya e il Qatar stanno prendendo accordi per l’affitto di centomila ettari di terra coltivabile nel Tana Delta. Sembrerebbe che la trattativa preveda che il Qatar costruisca un secondo porto sulla costa di Lamu. Come ha affermato Philip Kiriro, leader della Farmers Federation Union, è immorale concedere risorse a un altro paese affinchè possa risolvere i suoi problemi prima che i bisogni primari della propria popolazione siano soddisfatti. Infatti, ciò vorrebbe dire che un paese straniero può produrre cibo per la sua economia sulle nostre terre quando invece i kenioti non sono supportati abbastanza dal proprio governo. E’ forse giusto che paesi ricchi promuovano lo sviluppo nei paesi poveri utilizzando questo tipo di modello? La risposta è no. Tutto ciò è immorale e segnala l’inizio di una guerra globale per il cibo. L’invasione dei paesi poveri per mano degli stati e delle multinazionali del Nord in cerca di terra per coltivare cibo e biofuel non farà altro che aggravare i problemi alimentari dei primi. Questo è solo l’inizio, preparatevi per il peggio.
Fatto questo quadro, sono del parere che ciò di cui il Kenya ha veramente bisogno sono politiche nazionali a lungo termine per ridurre la rivalità etniche, pianificazioni e una maggiore lungimiranza. Infine, la tolleranza zero nei confronti della corruzione dovrebbe essere non solo predicata ma anche applicata».
Secondo Samuel K. Muhunyu, coordinatore paese per NECOFA, i segnali della carestia in corso erano evidenti ben prima che il Governo decidesse di lanciare l’allarme. L’insicurezza alimentare non è un fatto nuovo per il Kenya che, come altri paesi africani, si è già trovato altre volte a dipendere dagli aiuti. Ciò che differenzia l’emergenza di oggi sono le sue dimensioni. Evidentemente tanto gravi da preoccupare anche la classe politica. Muhunyu afferma che questa potrebbe non essere l’ultima volta che il paese si vede costretto a elemosinare soldi per affrontare la crisi. «Ma non perché il Kenya sia incapace di provvedere alla sua sussistenza. Al contrario – sottolinea l’esperto – Il Kenya ha le risorse per produrre tanto cibo quanto serve per sfamare la sua popolazione. Per farlo però c’è bisogno di politiche che favoriscano l’agricoltura biologica su piccola scala. I contadini hanno tutte le capacità necessarie per produrre cibo per se stessi e per le loro comunità, e vanno incoraggiati».
«Bisognerebbe formulare politiche che assicurino alle famiglie senza terra, urbane e rurali, l’accesso a degli appezzamenti, così come alle risorse per coltivare: sementi e acqua; la ricerca e l’istruzione in campo agricolo dovrebbero integrare in sé le conoscenze indigene e l’innovazione e le decisioni dovrebbero essere prese in modo equo e partecipativo e continua -. Altri importanti elementi per raggiungere la sicurezza alimentare sono la stabilità della democrazia e l’applicazione delle regole di buon governo (che avrebbero evitato i disastri postelettorali del 2007)».
«Gli africani sono stati vittime di esperienze disumanizzanti, dalla schiavitù ai conflitti del post-indipendenza, passando per il colonialismo. I saperi indigeni, raffigurati come inferiori dal sistema educativo e dalla religione, si sono alterati. I cibi tradizionali si sono lasciati sostituire da abitudini culinarie considerate esotiche ed elitarie, e di conseguenza la biodiversità si è indebolita. Ecco perché l’attuale carenza di mais è sinonimo di fame, nonostante il paese sia capace di produrre su larga scala prodotti locali che, tra l’altro, sono anche più resistenti alla siccità. Per questo – conclude Muhunyu – è auspicabile che il governo e la società civile investano nella promozione dei cibi dimenticati e della biodiversità, l’unica assicurazione possibile contro periodi difficili come questo».