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Sulla "Diaspora Africana" un contributo di Silvana Verde

 LA DIASPORA AFRICANAdi Silvana Verde – Istituto Universitario Orientale di Napoli, Italy
LA TRATTA DEGLI SCHIAVI E LA GRANDE DIASPORA AFRICANA
La traumatica e lacerante catastrofe della deportazione in massa degli Africani, attraverso il commercio degli schiavi perpetuatosi per secoli, è sicuramente il punto di partenza cui far convergere ogni tentativo di analizzare l’ origine della diaspora. La tratta degli schiavi è un fenomeno le cui origini risalgono almeno al X secolo e che durò fino alla fine del XIX. Prima gli Arabi e poi anche gli Europei (soprattutto nel periodo della colonizzazione del Nuovo Mondo) utilizzarono schiavi provenienti dall’Africa subsahariana e occidentale deportati lungo rotte commerciali che attraversavano la stessa Africa, l’ Oceano Indiano e l’ Atlantico.
La forma più antica di commercio degli schiavi in Africa fu quella messa in atto dai popoli nordafricani a danno dei popoli neri subsahariani. Anche se le origini di questa pratica sono estremamente antiche, solo a partire dal X secolo, con l’introduzione dei cammelli dall’ Arabia, essa assunse le connotazioni di una vera e propria rete commerciale. Questo commercio, sebbene sia durato per molti più secoli, non raggiunse mai le proporzioni del traffico schiavista occidentale. In molti casi, i commercianti di schiavi arabi (e in seguito europei) non eseguivano direttamente le catture bensì intrattenevano rapporti con intermediari locali che erano spesso i regni o le tribù dominanti delle diverse zone. Questi intermediari, a loro volta, sfruttavano il loro rapporto con i mercanti di schiavi per ottenerne benefici (ad esempio armi) attraverso cui rafforzare la loro posizione di predominio nei confronti dei propri vicini.
Gli Africani erano talmente compromessi nel commercio con gli Europei che la drastica e inevitabile alternativa era di ridurre i propri simili in schiavitù o rischiare di essere fatti schiavi: era questa la molla segreta che muoveva il rapporto schiavistico con l’Europa e che spinse molti Africani a partecipare al commercio schiavista. I mercanti arabi ed europei non dovevano far altro che fomentare queste guerre armando a turno i vari gruppi etnici africani ed attendere l’esito dei conflitti che, comunque, era per loro sempre favorevole.
Nel XV secolo le potenze europee iniziarono a creare insediamenti nelle Americhe; l’obiettivo era di creare delle economie funzionali alla madrepatria. Era richiesta quindi una grande quantità di manodopera che però non fu trovata a sufficienza negli indigeni americani già decimati dai massacri e soprattutto dall’ invasione microbica esportata dagli Europei. La tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico assunse rapidamente proporzioni senza precedenti, dando origine a vere e proprie economie basate sullo schiavismo che rafforzarono l’Europa in modo direttamente proporzionale all’indebolimento dell’Africa. Le dimensioni del commercio di schiavi dall’Africa divennero presto impressionanti: si è calcolato che non meno di 40 milioni di uomini furono trasportati attraverso i canali dello schiavismo: la tratta Transahariana, quella Orientale e soprattutto quella Atlantica. Va sottolineato però che per ogni schiavo africano che raggiungeva il suo porto d’arrivo, un altro rimaneva ucciso durante la cattura, mentre circa il 25-35 per cento moriva durante il viaggio. Ciò fa lievitare il numero delle persone vittime di tale commercio.
Il Benin, un piccolo Stato africano situato tra Togo e Nigeria, nella zona costiera che porta il famigerato nome di “Costa degli Schiavi�, diventò uno dei luoghi più importanti per tale mercato. Tutti gli anni, a gennaio, si svolge in Benin una commemorazione ufficiale della schiavitù. Si tratta di un evento a cui partecipano migliaia di persone provenienti dagli Usa, dal Brasile, da Haiti, da Trinidad e da altri luoghi legati alla diaspora nera. I partecipanti ripercorrono la parte finale della via degli schiavi, dove nei secoli sono passati migliaia di esseri umani incatenati e si fermano nei luoghi più significativi come il “memoriale alla schiavitù�, costruito nel 1992, per arrivare poi alla “Porta di non ritorno� inaugurata nel 1995 dall’Unesco. Inoltre,un passo importantissimo sull’argomento della schiavitù è stato fatto il 25 settembre del 1926, con la Convenzione di Ginevra che dà corpo a una definizione basata su criteri giuridici che vieta la schiavitù, indicandola come il possesso     in un uomo di tutti o di alcuni degli attributi della proprietà.
In particolare, ad evitare ogni possibile dubbio, l’art.1 della Convenzione definisce la schiavitù come «lo stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano le prerogative del diritto di proprietà», mentre la tratta di schiavi comprende «ogni atto di cattura, di acquisto di un individuo al fine di ridurlo in schiavitù; ogni atto di acquisto di schiavo al fine di scambiarlo o venderlo; ogni atto di cessione in vendita o per scambio di uno schiavo acquistato al fine di essere venduto o scambiato, così come, in generale, ogni atto di commercio o di trasporto di schiavi».
Scopo della Convenzione è quello di pervenire alla soppressione progressiva, più rapida possibile, della schiavitù e di qualsiasi altra forma analoga o attenuata della stessa. In conformità alla Convenzione le parti contraenti s’impegnano reciprocamente a prevedere nelle proprie legislazioni nazionali sanzioni gravi in questi casi e a darsi reciproca assistenza in questo settore.
Tra le genti africane disperse in ogni parte del mondo è in corso un processo di riformulazione dell’identità: la diaspora, con la sua componente storica e religiosa, sta diventando un elemento centrale dell’identità nazionale e dei popoli esiliati.
Tutto ciò malgrado la retorica e l’ideologia razzista dell’uomo bianco che spingevano affinché i neri si vergognassero delle loro origini e del loro passato in catene e facevano della schiavitù la condizione naturale per i neri e, del comando, il diritto dei bianchi. Gli Africani invece per secoli hanno fortemente tentato e sono in buona misura riusciti a preservare la loro cultura, le loro tradizioni e quindi le loro radici.
LA DIASPORA  AFRICANA : L’ATTUALITÀ E IL NUOVO RUOLO
La diaspora, o meglio, le diaspore africane sono da qualche tempo al centro della ribalta internazionale. Queste rappresentano, infatti, un patrimonio di intelligenza, costituito da intellettuali, professionisti e studenti universitari, che potrebbe essere utilmente messo a disposizione per la promozione dello sviluppo umano nelle comunità dei vari paesi africani e dell’intero continente.Gli stati africani in passato hanno tenuto, a volte, un atteggiamento ostile nei confronti dei propri connazionali espatriati. Ma oggi sembrano avere preso coscienza del peso che può avere la diaspora nello sviluppo economico di un paese, soprattutto nell’Africa subsahariana.
Sull’onda di questo rinnovato interesse per la diaspora, nello scorso mese di luglio (2007) il senato nigeriano ha votato una legge che pone fine alla norma secondo cui i cittadini che avessero acquisito la cittadinanza di un paese estero avrebbero perso quella del paese di origine. Ciò allo scopo di fare rientrare in patria il maggior numero di nigeriani e di dare loro la possibilità di partecipare allo sviluppo del paese. Una forte attenzione a questo fenomeno è anche al centro della politica del presidente sudafricano Tabo Mbeki, che sta promuovendo, sia in Europa che negli Stati Uniti, la costituzione di diverse agenzie dotate di vere e proprie banche dati per raccogliere informazioni sulle competenze dei suoi connazionali, soprattutto nei settori delle nuove tecnologie e della ricerca, per impegnarli direttamente nelle nuove politiche di sviluppo del Sud Africa. 
Anche altri paesi africani come il Mali, il Senegal e l’Uganda stanno elaborando strategie e strumenti per utilizzare il potenziale delle diaspore, consapevoli che il loro impatto economico e finanziario sui paesi di origine non può essere trascurato, non solo in termine di sostegno alle esportazioni, ma anche in termini di risorse finanziarie e di trasformazione del capitale cognitivo in capitale economico. Le iniziative a questo riguardo sono varie, dal censimento della diaspora nei paesi occidentali alla creazione di banche dati.  Anche gli stessi componenti della diaspora vedono sotto una luce nuova il proprio ruolo. Infatti, da alcuni anni si nota un proliferare di iniziative e di reti attraverso la creazione di knowledge networks, che hanno il preciso scopo di connettere membri della diaspora tra loro e con il paese di origine, promuovendo lo scambio di capacità e conoscenze.
Una seconda tendenza che si può osservare parlando della diaspora africana è la maggiore autoconsapevolezza. Si può quindi dire che, negli ultimi anni, si stanno rafforzando i legami degli intellettuali africani con il paese di origine, tesi a valorizzare la loro doppia appartenenza (ovvero l’essere, al tempo stesso, africani e intellettuali a contatto con la cultura occidentale).
Proprio perché si riconoscono come soggetti che contano, i membri della diaspora stanno riflettendo sulle forme di ritorno possibili per contribuire col loro sapere,  non soltanto economicamente, allo sviluppo di una società civile che esiga partecipazione politica, tutela dei propri diritti, emancipazione sociale e culturale del continente africano. Oggi più che mai, questi africani sentono di avere una missione nei confronti dell’Africa, quella di sentirsi interpellati per fare qualcosa, e in modo urgente.
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
Il tema della diaspora non lascia indifferente la comunità internazionale, che negli ultimi anni si sta mobilitando con le reti della diaspora africana per la promozione di iniziative promosse anche dalle Nazioni Unite tese a coinvolgerla nel processo di sviluppo dell’Africa.
Ma perché gli africani hanno difficoltà a tornare?
Tra i fattori che comunemente vengono citati a proposito del non ritorno degli intellettuali e professionisti africani ve ne sono alcuni in particolare.
        >Un primo insieme di spiegazioni fa riferimento alle condizioni sociali e politiche del continente africano. Secondo questa prospettiva, le crisi economiche e politiche a cui l’Africa è andata incontro negli ultimi decenni hanno seriamente influenzato la decisione di molti emigrati di non tornare in patria.                                     . 
        >Vi é poi chi pone l’accento sulle condizioni di accesso al mercato del lavoro del paese di origine che non permetterebbero di trovare spazi per esprimere le proprie capacità. Chi rientra rischierebbe, così, di non trovare un inserimento lavorativo all’altezza delle sue qualificazioni e aspettative.
       >Infine viene segnalata anche l’importanza delle forza di attrazione del paese ospite.
Questi sono alcuni tra i fattori comunemente citati quando si parla delle difficoltà dei membri della diaspora a tornare in patria. Ma c’è da chiedersi se la situazione non sia più complessa e articolata di quanto non sembri a prima vista. Esistono meccanismi, certamente non solo economici, che producono il paradosso di una insufficienza di risorse umane qualificate e, al tempo stesso, di una grande emigrazione intellettuale. Ciò pone spesso la questione della diaspora nei termini di un’alternativa secca tra la “utilizzazione” e lo “spreco”. Probabilmente, per capire la diaspora occorre cercare di cogliere, al di là di facili schematismi, i reali fenomeni che oggi la compongono, anche nelle loro sfumature. Il tema della diaspora viene trattato sottolineando le potenzialità che questo fenomeno rappresenta in termini di crescita economica e di sviluppo dei paesi africani.
LA “SECONDA DIASPORA AFRICANA�
Col termine “seconda diaspora africana” si intende enfatizzare il significato globale assunto dalle migrazioni africane recenti e contemporanee, pur non negando l’importanza storica avuta dalla prima diaspora africana, quella che si è formata attorno alla vicenda relativa alle deportazioni del XVI secolo. Tale significato è legato al nuovo e impetuoso potere che la diaspora africana ha assunto, con il suo carattere transnazionale e la sua interazione con il processo di globalizzazione.
I nuovi flussi migratori provenienti dal continente africano si sostanziano soprattutto nel movimento di capitale intellettuale altamente qualificato verso i paesi che offrono l’opportunità di un adeguato sfruttamento di tali risorse e che hanno quindi un forte legame con il tema cruciale del brain drain. Questo fenomeno si inquadra, inoltre, in quello più vasto rappresentato dai movimenti migratori internazionali contemporanei, definibili come “new diasporas”, di cui si fornirà un quadro sintetico. Si passerà poi a descrivere brevemente il contesto in cui queste nuove diaspore sono nate e si muovono, quello, cioè, della globalizzazzione, che spinge alcuni autori a parlare di “global diaspora”.
Infine, data la specifica ricchezza intellettuale della seconda diaspora africana, si è rivelato indispensabile approfondire il tema del ritorno in patria da parte dei migranti, che, soprattutto negli ultimi anni, trova una sua dimensione più praticabile in quella che viene definita come “diaspora option”.
DIMENSIONI E CARATTERISTICHE DELLA SECONDA DIASPORA AFRICANA
Anche i ricercatori del FMI (Fondo Monetario Internazionale) hanno rilevato che i lavoratori con un livello di preparazione superiore, appartenenti alla diaspora dell’Africa sub-sahariana, rappresentano una porzione consistente del “vivaio” di lavoratori qualificati a disposizione dei loro paesi d’origine. Infatti, i lavoratori di circa 61 paesi in via di sviluppo trovano collocazione in aree geografiche come il Canada, gli Stati Uniti e l’Unione Europea (FMI, 1999). I flussi migratori di proporzioni maggiori sono quelli indirizzati verso gli USA e provenienti dall’Egitto, dal Ghana, dal Sud Africa, dalla Nigeria, dalla Sierra Leone, dal Kenia e dall’Uganda. Più del 60% degli immigrati di questi paesi è in possesso di una laurea, a conferma che nella composizione della diaspora africana la presenza di persone in possesso della sola educazione di base è trascurabile.
Il profilo migratorio dell’Africa subsahariana è decisamente differente, ad esempio, rispetto a quello dei paesi dell’America centrale, i cui lavoratori diretti verso gli Stati Uniti possiedono solo in minima parte una preparazione universitaria. Ci si trova di fronte a soggetti la cui identità non è affatto legata a quella che, in passato, veniva definita la “cultura della povertà“, bensì è da ricondurre a sistemi di aspettative, di valori e di bisogni sociali che sono propri di gran parte delle società ad alto sviluppo economico.
La seconda diaspora africana sembra, così, essere composta soprattutto da persone che possiedono un alto grado di qualificazione professionale ed intellettuale. Parlare di diaspora africana significa, parlare di capitale intellettuale in movimento, con tutte le conseguenze che tale caratteristica comporta.
IL “BRAIN OVERFLOW”
Fra i tanti fenomeni che accompagnano le migrazioni intellettuali, i paesi africani conoscano quello che in letteratura viene definito “brain overflow”, termine indicante una sovvraproduzione di personale qualificato o un basso impiego dei “cervelli” a disposizione di tali paesi. Alcuni di questi lavoratori altamente qualificati rischiano di non venire assorbiti del tutto, costituendo un surplus dovuto a una bassa offerta di impieghi o a un eccesso di risorse nei paesi in questione. Queste risorse trovano un naturale sbocco in altri paesi, venendo quindi assorbite dai mercati stranieri e creando le condizioni per la nascita delle contemporanee comunità diasporiche africane  Un ulteriore fenomeno che si accompagna al “brain overflow” è quello dello spreco delle risorse intellettuali interne ai paesi africani che, in mancanza di strutture e di opportunità, sono costrette a svolgere professioni non all’altezza della propria preparazione. L’insoddisfazione professionale nel paese di origine si va così ad aggiungere alle motivazioni che si trovano all’origine della diaspora africana.
 Il brain drain: con questo termine si indica la perdita di personale qualificato (a vari livelli) a causa dell’emigrazione da un paese verso altri.
IL BRAIN DRAIN IN AFRICA
Lo studioso P. Emeagwali fa notare l’esistenza di una contraddizione: nel continente africano si spendono milioni di dollari per ingaggiare professionisti specializzati, generalmente provenienti dall’estero, senza pensare a coinvolgere i circa 250.000 professionisti africani appartenenti alla diaspora, favorendo, in questo modo, un impoverimento di risorse economiche ed intellettuali del continente. Il brain drain non permette che in Africa si formi una classe media di medici, di ingegneri e di altri professionisti. Nell’Africa subsahariana, di conseguenza, si costituirebbero due blocchi: una larga fascia di popolazione non qualificata, e spesso disoccupata, e una fascia molto ricca, ma spesso impermeabile a nuovi ingressi.  La caratteristica più interessante della “new diaspora” è data dalla composizione dei flussi migratori, in larga parte formati da “skilled migrants”. Già dai primi anni ottanta nel flusso migratorio verso gli Stati Uniti si registra una presenza sostanziosa di “skilled migrants” provenienti dai paesi in via di sviluppo (S. Simanovsky, M. Strepretova, Y. Naido, 1996).                                                          
Questa perdita di personale qualificato (a vari livelli) attraverso l’emigrazione da un paese verso altri, è largamente conosciuta con il nome di “brain drain”. Le definizioni di brain drain sono molteplici e spesso discordanti per quanto riguarda le tipologie degli immigrati che in esse vengono incluse. Il termine infatti può riferirsi esclusivamente alle fasce più elevate, che comprendono gli scienziati e i professionisti altamente qualificati (highly skilled professionals), sino a includere tecnici specializzati o addirittura operai specializzati. Il brain drain è costituito dalla migrazione di forza lavoro qualificata da un paese all’altro, con una forte connotazione di perdita per quanto riguarda i paesi di origine:
> persone con un elevato livello di istruzione che  migrano dai paesi in via di sviluppo per unirsi alla   forza lavoro dei paesi più sviluppati;
>studenti che, per studio o formazione, si   trasferiscono in paesi più sviluppati decidendo in   seguito di rimanervi.
IL PARADOSSO DEL BRAIN DRAIN AFRICANO
Un altro dei nodi problematici del brain drain risiede nel flusso migratorio composto da studenti. Infatti, dato che un professionista africano su tre desidera lavorare fuori del proprio paese, le università africane stanno in realtà formando professionisti da esportare in Europa e Stati Uniti. Si produce così un paradosso: nella realtà dei fatti, l’Africa fornisce assistenza per lo sviluppo dei paesi del nord del pianeta, arricchendo i già ricchi e impoverendo ulteriormente i poveri. In sostanza, i miglioramenti del sistema scolastico africano avvenuti nel periodo d’indipendenza degli anni sessanta, sono andati a beneficiare in modo rilevante gli Stati Uniti, il Canada e tutti gli altri paesi che possedevano colonie nel continente africano, come l’Inghilterra, la Francia, il Portogallo e il Belgio.
IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA FUGA DEI CERVELLI E DELLA POVERTÀ CRONICA
Nel tentativo di dare una spiegazione delle disuguaglianze socio-economiche fra paesi, i ricercatori del FMI hanno collegato strettamente il problema del brain drain alla povertà cronica dei paesi dell’Africa subsahariana. Infatti, la ricercatrice Detragiache (All Africa News Agency, 1999) afferma che: “esistono probabilmente differenze nei livelli scolastici tra i paesi sviluppati e quelli in difficoltà, ma non c’è dubbio che gli occupati altamente qualificati sono assenti dalla maggior parte delle economie dell’Africa subsahariana”. Risulta chiaro che il problema della fuga dei cervelli si trasforma in un forte freno all’espansione dell’economia locale per molti paesi africani.
I PROBLEMI-CHIAVE
Del tema del brain drain, i problemi chiave sono: l’isolamento della comunità scientifica africana, la mancanza di tecnologie adeguate alla comunicazione e la necessità di una maggiore attività di networking costituiscono alcuni dei problemi che bloccano la ricerca e che spingono molti ricercatori all’esilio. La fuga dei cervelli costituisce pertanto un’enorme perdita economica. A fronte dei nodi problematici appena affrontati, riguardanti sia la diaspora che il brain drain, c’è da chiedersi se c’è la possibilità di sfruttare l’enorme ricchezza che risiede nelle comunità diasporiche.
LA “GLOBAL DIASPORA”
A partire dalla seconda metà degli anni novanta, negli studi sulle migrazioni internazionali e sulle relazioni etniche si sta affermando l’uso di un nuovo concetto di diaspora, con il quale si cerca di identificare il fenomeno della formazione di complesse identità transnazionali. Questo nuovo concetto viene formulato sinteticamente adottando varie locuzioni linguistiche, come: “new diaspora”, “post-modern diaspora” o “global dispora”.
Il concetto di diaspora è stato ampliato per arrivare ad includere, non solamente la migrazione “non volontaria” dai paesi di origine a causa di guerre di indipendenza o di crisi di stato (ad esempio, la diaspora eritrea), ma anche i movimenti migratori volontari dalla propria patria, alla ricerca di lavoro o di un completamento del proprio percorso di studi: quelle che possono essere definite come “trade” o “labour diasporas”.
Con il termine diaspora s’intende, quindi, coprire un vasto ambito di significato, riprendendo la prospettiva proposta da Nicholas Van Hear (1998), per il quale, affinché un gruppo umano si possa definire come appartenente alla diaspora, è necessario che vengano soddisfatti tre criteri minimi:1. la popolazione deve essere “dispersa” tra un paese di origine e due o più paesi;    
2. la presenza all’estero deve essere duratura, anche se può prevedere movimenti periodici tra il paese d’origine e quello di permanenza;   
3. deve essere in atto un qualunque tipo di scambio – sociale, economico, politico o culturale – tra il paese di origine e quello di permanenza.    
Nel contesto dei processi di globalizzazione si registra un progressivo indebolimento degli stati-nazione. Perciò, con diaspora si indica l’aggregato di persone straniere (spesso provenienti da paesi in via di sviluppo, nella maggioranza dei casi immigrati) che si inserisce in un paese ospite, vi si stabilisce e vi lavora, senza nutrire nei suoi confronti un vero sentimento di lealtà e appartenenza, sentimento che invece tributa alla patria di origine con la quale, tra l’altro, resta in contatto (informativo o fisico, attraverso brevi ritorni e visite ai parenti…).      
Nell’epoca della globalizzazione le diaspore presentano le seguenti sei caratteristiche:
1. possiedono una memoria collettiva e una mitizzazione della patria originaria;                             
2. promuovono movimenti di ritorno;                                 
3. sono costituite da un forte raggruppamento etnico, che si è costruito e arricchito in un periodo medio-lungo;
4. presentano relazioni problematiche con il paese ospite;                                      
5. hanno un forte senso di solidarietà interna e con i gruppi co-etnici, presenti anche in altri paesi;
6. si distinguono spesso per un’attitudine creativa, che contribuisce allo sviluppo artistico nei paesi ospiti.
Una volta definiti i contorni sociologici legati ai movimenti delle migrazioni intellettuali, è necessario analizzare le motivazioni che spingono i migranti a cercare al di fuori del paese di origine un adeguato impiego delle proprie risorse. Una delle motivazioni cruciali risiede nelle nuove dinamiche lavorative che il processo di globalizzazione offre ai professionisti e agli intellettuali provenienti dai paesi africani.
LA “DIASPORA OPTION”
La “diaspora option” è più recente e procede attraverso strategie molto differenti. Questo approccio parte dal presupposto che molti dei migranti non abbiano intenzione di tornare e che si siano stabiliti all’estero, conducendo la loro vita professionale e personale nei paesi di nuova accoglienza.
L’obiettivo di questa strategia è pertanto quello di creare canali attraverso i quali coloro che sono emigrati possano essere effettivamente coinvolti nei processi di sviluppo, evitando la necessità di un ritorno fisico, permanente o temporaneo .
La diaspora option è che non necessita a monte di investimenti infrastrutturali di sostanza, dal momento che consiste nella capitalizzazione di risorse esistenti.
ALL’ORIGINE DELLE MIGRAZIONI INTELLETTUALI
Il fenomeno della globalizzazione economica e sociale può essere, infatti, definito come uno tra i fattori determinanti delle migrazioni intellettuali. La globalizzazione, riassumendo in sé molteplici aspetti, resta un fenomeno altamente dibattuto e controverso. Se da un lato essa concorre ad accelerare e ampliare i flussi migratori preesistenti, allargando le possibilità di accesso di sempre maggiori porzioni di popolazione, dall’altro, essa sembra incidere negativamente sul sistema globale dell’economia, aumentando il differenziale di ricchezza tra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo.
LA QUESTIONE DEL “RITORNO”
La portata, in termini numerici e di sostanza, delle migrazioni intellettuali comporta un serio ragionamento sulle possibilità di recupero di un tale patrimonio intellettuale per i paesi di origine. Diventa così di importanza cruciale affrontare il tema del ritorno di capacità e competenze nei paesi colpiti dal brain drain, un ritorno che può non essere necessariamente inteso come fisico, ma che comunque potrebbe beneficiare i paesi africani attraverso quello che viene definito “reverse brain drain” o “brain gainâ€?.                                                    
Negli ultimi vent’anni, il concetto di migrazione intellettuale si è evoluto, ponendo una maggiore enfasi su quello che può essere definito il fenomeno del “brain gain”, che fa riferimento a una concezione secondo la quale la fetta di migranti qualificati può essere considerata come una risorsa potenziale piuttosto che come una perdita definitiva.                                                         
L’esistenza di due modi fondamentali per implementare il “brain gain”: in un caso, attraverso il ritorno fisico degli espatriati (return option) e, nell’altro, mediante la loro mobilitazione a distanza a favore dei paesi di origine (diaspora option).
La “return optionâ€? è stata realizzata con successo da molti paesi, soprattutto dai New Industrialized Countries (NICs) come Singapore o la Repubblica di Corea, così come da paesi di grandi dimensioni quali l’India o la Cina.  Dal 1980 questi paesi hanno messo in atto importanti programmi di rimpatrio dei connazionali qualificati che vivevano all’estero, attraverso la creazione di reti locali in cui i ritorni potessero avere spazi effettivi e possibilità di realizzazione.
La drammaticità del fenomeno del brain drain è particolarmente evidente per quanto riguarda l’Africa subsahariana e costituisce una “lenta morte per l’Africa”.          
    

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