29/01/2008
– NAIROBI – La notizia arriva inaspettata dal telegiornale delle 07.30 di
mattina: un parlamentare dell’opposizione è stato ucciso sulla porta di casa.
Per strada la situazione sembra normale ma più avanza la giornata e più si
susseguono notizie negative e la tensione sale. E’ il 29 gennaio, un mese circa
dopo le consultazioni elettorali, la violenza è presente in molte parti del
Paese. La guerra non è più tensione post-elettorale e non è più neanche semplicemente
una questione tra kikuyu (etnia del presidente Kibaki) e luo (etnia del capo
dell’opposizione Raila Odinga). Oggi lo scontro si è esteso a molte altre etnie
e anzi l’etnia sembra in molti casi più un pretesto o un mezzo per raggiungere ben
altri obbiettivi.
Nairobi,
capitale di questo Paese in guerra, in questi giorni è strana, piena di
tensione e contraddittoria, forse anche di più del solito. Alla Shalom House
(centro polifunzionale sede di Africa Peace Point) la mattina inizia calma,
addirittura una musungu (bianca)
prende il sole in giardino ma dopo poco tutti sono attaccati ai vetri che danno
su Dagoretti Corner per vedere cosa accade. All’improvviso urla e dal nulla
compaiono persone armate di bastoni e sassi, la polizia interviene con forza
sparando colpi di fucile in aria e lanciando fumogeni sulle persone. Tutti
scappano, la tensione resterà alta ancora per una mezzora buona e poi come se
nulla fosse successo si torna alla vita normale. Tutte le scuole a causa della
situazione vengono evacuate, i ragazzi tornano a casa.
Alcune strade vengono
bloccate, molti negozi si chiudono.
Uscendo in macchina alle 14 le strade cronicamente iper-trafficate di Nairobi sono
improvvisamente libere. Paradossalmente essere bianco è in questi giorni una
fortuna, un lasciapassare per evitare ogni tipo di problema. Dagoretti Corner è
un’area che si trova sulla strada che dalla capitale va verso Karen (area
benestante della città), una zona che si trova anche molto vicina a Kibera (più
grande slum d’Africa), Kawangare, Waithaka, Satellite, zone periferiche dove la
violenza si è oggi espressa ai massimi livelli. A Kawangare e Waithaka gli
abitanti non kikuyu dell’area sono stati avvertiti dai mungiki (estremisti
kikuyu): “avete 24 ore per andarvene
dalle vostre case, altrimenti vi bruceremo dentro” , alcuni di loro sono
già scappati prendendo solo i propri averi più importanti, altri resistono
chiusi nelle loro case. Quella di questi giorni pare essere la risposta kikuyu
alla violenza post-elettorale che li ha visti in molti casi come vittime. Da
Mathare (seconda slum di Nairobi) molti kikuyu se ne sono andati promettendo
vendetta. E la vendetta si sta realizzando in queste ore.
Persone che per anni
hanno convissuto fianco a fianco sono oggi in guerra tra loro. Ma come detto
l’etnia non pare spiegare del tutto questo conflitto che, come ha giustamente
notato Kofi Annan (che sta guidando la mediazione) “è un conflitto che ha radici molto più profonde rispetto al semplice
appuntamento elettorale”. Il conflitto è oggi per la terra e per il potere,
oltre a questo ci sono anche soggetti/gruppetti indipendenti che cercano di
approfittare della confusione per compiere veri e propri saccheggi. Visitando
nei giorni scorsi Mathare era incredibile vedere come un’intera parte della
baraccopoli fosse stata saccheggiata, bruciata e poi rasa al suolo. Guarda caso
la zona “devastata” è stata l’area commerciale della slum e chi ha compiuto il
gesto sono stati gruppi di giovani arrivati armati di pietre e bastoni da
un’altra parte della slum e andati via con cibo, oggetti vari, addirittura
frigoriferi sulle spalle
In
Rift Valley (Naivasha, Nakuru, Eldoret) la guerra è per la terra, passare in
quelle zone in macchina è impossibile in questi giorni. Oggi la polizia ha
deciso l’invio di elicotteri a Naivasha per bloccare le violenze sparando all’impazzata
dall’alto, chiunque poteva essere vittima e forse non sapremo mai con esattezza
cosa è accaduto oggi in quest’area che si trova a solo un ora e mezza di
macchina da Nairobi. Qui la guerra è tra kikuyu e kalenjin, etnie per anni amiche
sotto i governi di Moi e ora ai ferri corti per problemi legati alla
spartizione delle fertilissime terre della Rift Valley. A Kakamega gruppi armati di persone sono entrati in città
dando fuoco all’università e ad alcune case, la guerra qui è tra kikuyu e luhya
(2° etnia per numero del Paese). A Kisumu i problemi sono tra i kikuyu e i luo.
Per ultimo arrivano notizie di scontri anche in area di confine tra Kenya e
Uganda. Tanti scontri e migliaia di sfollati il cui numero aumenta di giorno in
giorno.
Ciò
che è certo è che quella in atto è una guerra tra poveri, tra masse di persone allo
sbando che ora i politici non riescono a bloccare e controllare. La mediazione
continua ma la vera sfida è quella di riuscire a bloccare quest’escalation di
violenza. Gli appelli alla pace si susseguono soprattutto per radio e sui
giornali ma capire se e quando potrà migliorare la situazione è veramente dura.
Essendo il Kenya stato per anni una rara isola di pace in un’orizzonte
est-africano costellato di guerre oggi con la crisi di questo Paese sono in
ginocchio anche tanti altri Paesi dell’area (Sudan, Uganda, Rwanda, Burundi,
Congo ad esempio) che dipendono nel rifornimento di molte materie prime (non ultima
la benzina) dal Kenya. In un colpevole silenzio di una comunità internazionale
più interessata alla sicurezza dei turisti presenti in Kenya che non alla
risoluzione del conflitto pare ora difficile capire come possa esser bloccato
questo vortice di violenza.
Marchina
(rappresentante di APP Onlus
e Karibu Afrika Onlus)