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Per capire la situazione in Congo

in una situazione di costante insicurezza e precarietà. Centinaia di migliaia di persone cercano di scappare dalle aree del conflitto: il Kivu.

Non è facile capire e destreggiarsi sulle ragioni, sulle cause dell’attuale situazione. Per questo pensiamo di fare cosa utile evidenziare l’articolo che Jean Leonard Touadi ha scritto per Limes, il mensile di geopolitica.

Jean Leonard, congolese, cittadino italiano e attuale deputato, con estrema lucidità ci fa capire le ragioni di questa ”Pentola che bolle”, per dirla come il titolo del libro scritto qualche anno fa da Touadi.

La guerra nei Grandi Laghi

Il Congo brucia, ancora

di Jean-Léonard Touadi Pubblicato su Limes all’indirizzo http://temi.repubblica.it/limes/il-congo-brucia-ancora/

Lo spettro di un altro genocidio. I nodi irrisolti del conflitto. Le ambizioni dei vicini. Lo spazio vitale del Ruanda. Le risorse minerarie. L’imponenza e l’impotenza della Monuc. Perché dobbiamo salvare l’ex Zaire.

 

 

Il Congo brucia ancora una volta. Le cronache da questo gigante territoriale (2.345.000 km², circa tutta quanta l’Europa occidentale) tornano a parlare di ribelli, uccisioni, stupri, bambini arruolati forzatamente nelle varie milizie, sfruttamento selvaggio delle immense ricchezze di questo territorio. Più grave ancora lo spettro di un nuovo genocidio che si aggira per il Congo orientale: da settimane un milione e seicentomila profughi vagano nella giungla senza cibo, acqua potabile nè assistenza. Nella loro fuga s’imbattono in miliziani senza scrupoli pronti a razziarli delle poco cose in loro possesso e a stuprare donne fiaccate dagli stenti della fame e della marcia forzata. A questo macabro gioco di guerra non sfuggono nemmeno le bambine, poi costrette a passare alcune notti in centri protetti presso le missioni cattoliche o presso le poche ONG rimaste operanti nella zona del Kivu.

Come fosse un Sisifo formato-paese, nonostante gli accordi di pace firmati a gennaio dello scorso anno, le lezioni politiche e presidenziali che avevano segnato un’effimera svolta politica, e nonostante la presenza della più imponente ed impotente forza dell’ONU (17.000 soldati), il Congo ha riannodato il filo mai spezzato della sua drammatica storia fatta di violenze cicliche dall’epoca coloniale. Dai crimini di re Leopoldo II  – un genocidio di circa 11 milioni di congolesi tra il 1880 e il1908 – fino ai giorni nostri passando per gli anni terribili dell’indipendenza conseguita nel 1960 e culminata con il martirio del padre dell’indipendenza, Patrice Lumumba. La violenza in Congo non è contingente: è strutturale alla sua nascita, avvenuta al Congresso di Berlino (1885).

 

Leopoldo II riceveva il mandato di amministrare lo “stato indipendente del Congo” come sua “proprietà personale” (bestie e uomini compresi): La violenza è la stoffa insanguinata della conquista dell’indipendenza pesantemente condizionata dalla guerra fredda e dagli appetiti delle multinazionali belghe e statunitensi che non intendevano rinunciare ai ricchi giacimenti del Katanga. E’ una pesante eredità del regime totalitario e cleptocratico del dittatore Mobutu che ha “regnato” incontrastato sul Congo dal 1965 fino al 1997, quando le truppe del capo dell’Alleanza delle Forze democratiche (ADFL) di Laurent Kabila avviavano la lunga marcia verso la presa di potere a Kinshasa. L’incompiuta transizione congolese, da allora, è una scia di sangue, tradimenti, scissioni e guerre in tutto il territorio nazionale: nemmeno il giovane figlio di Kabila, l’attuale presidente, è riuscito a pacificare il paese.

Ma quali sono i nodi principali della guerra congolese?

Innanzitutto, la costante minaccia all’integrità territoriale del Congo da parte dei suoi vicini con la complicità di forze internazionali che puntano allo sfruttamento delle sue ricchezze.

Ricchezze e posizione geostrategica nel cuore del continente, quell’Afrique médiane a metà strada tra l’Oceano indiano e l’Atlantico, tra la minaccia fondamentalista che proviene dal Mar Rosso e dal Corno d’Africa e le riserve strategiche di petrolio del Golfo del Benin e del Golfo di Guinea. Chi controlla il Congo è in grado di dirigere il traffico tra i territori sensibili del Sudan, dell’Etiopia, dell’Eritrea e della Somalia e gli importanti giacimenti del Cabinda, della Guinea Equatoriale e del Congo-Brazzaville.

 

Senza contare, come ricordato, lo “scandalo geologico” delle risorse minerarie del Congo: uranio (yellowcake fondamentale per l’energia nucleare), oro, diamanti ma soprattutto coltan (colombo-tantalite), indispensabile nella new economy (telefonini gsm, computer e componentistica aeronautica). La geopolitica del cinismo guidata non da motivazioni ideologiche, ma da corposi interessi economici locali e stranieri ha trovato nella peculiarità geologica del Congo il suo laboratorio insanguinato. Interi pezzi di territorio nazionale sono sottratti all’autorità dello Stato (volutamente indebolito) e lasciati alle orde feroci e voraci delle milizie. E’ il caso di riaffermare la tesi congolese – suffragata dalla Carta fondativa dell’Organismo panafricano – dell’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione e che nessun vicino può
unilateralmente rimettere in discussione sotto qualsiasi motivo.

Poi, la questione delle garanzie da fornire al Ruanda in merito alla permanenza delle milizie hutu alla frontiera con il Congo, cui si aggiunge il pretesto spesso usato in questi anni della protezione delle etnie di ceppo tutsi che vivono nell’Est del Congo. Sono due questioni che non bisogna sottovalutare perché costituiscono l’argomentazione di base del Ruanda per il suo, diciamo cosi, interesse per il Congo. Occorre ricordare che la presenza delle milizie hutu (FDLR= Forze democratiche per la liberazione del Ruanda) nella parte orientale del Congo è ormai residuale e comunque non tale da minacciare il ben addestrato ed equipaggiato esercito ruandese. Nessuno nega tuttavia il diritto-dovere del Ruanda di difendere il suo territorio. La questione semmai è quella di stabilire se questa difesa debba avvenire a partire dal territorio congolese controllato attraverso milizie amiche e non invece a partire dal territorio ruandese stesso.

 

Esiste, senza dubbio, il legittimo sospetto di un’eccesso di legittima difesa da parte ruandese. La questione di uno spazio vitale per il Ruanda – cosi esiguo territorialmente e con una popolazione in forte crescita – esiste, ma Kigali non dovrebbe risolverla occupando un pezzo di territorio congolese. La soluzione sta nella costituzione di una comunità regionale dei Grandi laghi, con una concordata libera circolazione dei beni e delle persone, uno spazio di scambio economico, delle parziali cessioni di sovranità in materia doganale e di codice degli investimenti. Questa soluzione avrebbe il vantaggio non secondario di interrompere il secolare faccia a faccia tra tutsi e hutu inserendoli in un contesto relazionale più vasto. Questo potrebbe essere lo scopo principale di una conferenza internazionale dei Grandi laghi incaricata di definire, in un quadro condiviso e con impegni costringenti per le parti, i nuovi assetti della regione. E’ convinzione di tutti che è tramontata l’era degli accordi separati. La regione dei Grandi laghi africani aspetta una sua “Yalta” che possa fissare i nuovi equilibri e gli obiettivi d’integrazione.

Il governo congolese di Kabila ha dimostrato la sua incapacità di assicurare la pace dentro i confini nazionali. Resterà a lungo nella mente dei congolesi l’immagine del proprio esercito in fuga dalle zone di combattimento. Il primo ministro uscente Gizenga non ha mai messo piede nel Kivu in due anni d’incarico. Il nuovo governo ha avuto come mandato prioritario quella di garantire la sicurezza e la stabilità nei confini orientali del paese.

Ma è nella gestione delle risorse minerarie che Kabila non ha innovato rispetto al passato recente del paese: la stragrande maggioranza dei congolesi vive sotto la soglia di povertà, l’inflazione è altissima, il potere d’acquisto inesistente, i servizi di base carenti e le infrastrutture fatiscenti.

 

E ciò nonostante i contratti miliardari firmati con le potenze occidentali e le multinazionali cinesi (l’ultimo proprio nella regione del Kivu). Non ci sarà pace in Congo se la ricostruzione e la normalizzazione non passeranno dalle declamazioni governative alla vita concreta dei congolesi. Non potrà esistere una nazione congolese senza uno Stato. L’urgenza per Kabila è duplice: da un lato ristabilire i principi basilari della statualità dopo la completa liquefazione dello Stato durante i lunghi anni del regime di Mobutu; dall’altro operare per assicurare alla popolazione il soddisfacimento dei bisogni essenziali che sono diritti basilari di cittadinanza. Senza prima ripristinare l’amministrazione centrale sarà difficile rivendicare la sovranità su un territorio senza regole e un popolo senza comunità.

La comunità internazionale deve onorare il proprio debito nei confronti della regione dei Grandi Laghi africani. Perché non ha impedito il genocidio ruandese e perché ha lasciato i congolesi da soli ad assorbire l’onda d’urto di un genocidio che ha rilasciato le sue scorie tossiche nel vicino Congo. L’imponenza e l’impotenza della Monuc sono un’onta per la diplomazia internazionale. Le immagini della popolazione di Goma che aggredisce le forze internazionali che avevano la missione di proteggerla sono emblematiche della rabbia e della frustrazione del Congo nei confronti della comunità internazionale. Essa può riscattarsi subito, attraverso la creazione di corridoi umanitari per portare soccorso alle popolazioni in fuga; operando per creare le condizioni di un ritorno alla normalità nel più breve tempo possibile con programmi mirati, risorse certi e tempi lunghi d’attuazione.

Salviamo il Congo perché una parte della nostra umanità sta morendo insieme alle popolazioni del kivu nelle foreste e nei campi profughi. Salviamo il Congo perché non è giusto che popolazioni inermi paghino il costo della globalizzazione impazzita che sconvolge i territori e disumanizza le comunità in nome delle materie prime da sfruttare a qualunque costo. Salviamo il Congo perché è il cuore dell’Africa. Il cuore malato di un corpo che aspetta di diventare il partner dell’Europa per la nascita dello spazio euroafricano.

 

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