Nonostante la scarsa attenzione dei governi africani nei confronti delle loro gioventù, l’Africa continua ad ospitare i più grandi campi di rifugiati al mondo, come quello di Dadab in Kenya che da solo ne contiene oltre 300 mila. Complessivamente l’Africa subsahariana ospita oltre il 26% della popolazione mondiale di rifugiati, 18 milioni. Per fare un paragone l’Europa ospita 5,2 milioni di rifugiati (2016).
Quindi ancora una volta dobbiamo imparare dall’Africa, in questo caso dall’Uganda che, nonostante il pugno di ferro del Presidente Museveni, questo è il paese che sa accogliere e dare un futuro ai rifugiati che fuggono da conflitti, violenze, fame. In passato, abbiamo avuto modo, come TFA, di collaborare in un progetto per lo sviluppo delle attività artigianali con una comunità di sud sudanesi che da anni viveva in un campo profughi nel nord del Paese, a Robidire. Quelle persone accolte in Uganda avevano la possibilità di lavorare, coltivare la terra a loro assegnata, vivere una vita normale in attesa di ritornare nelle loro terre.
Oggi l’Uganda ospita di nuovo profughi dal Sud Sudan, oltre ai 300 mila profughi provenienti da Burundi, Ruanda, Somalia e Repubblica Democratica del Congo. Questo atteggiamento degli ugandesi nei confronti dell’accoglienza dei rifugiati, va probabilmente ricercato nel fatto che, a suo tempo, gli stessi ugandesi hanno dovuto fuggire in altri paesi per la loro sicurezza. Godfrey Byaruhanga, coordinatore dei servizi per i rifugiati per conto del governo , pensa sia giusto “restituire il bene”. “La maggior parte dei nostri leader sono stati rifugiati, quindi è stato facile per loro abbracciare l’attenzione politica nel confronto dei rifugiati”.
Questo atteggiamento è in contrasto con altri paesi africani che lottano per far fronte al crescente numero di rifugiati. In Kenya, sede del più grande e più vecchio campo profughi del mondo, Dadaab, i rifugiati non possono legalmente lavorare ei loro movimenti sono limitati. Vivono anche sotto la continua minaccia di chiusura del campo.
Byaruhanga, spiega che i rifugiati hanno il diritto di lavorare e hanno diritto agli stessi servizi sociali degli abitanti, inclusi l’educazione primaria gratuita e l’assistenza sanitaria. I rifugiati sono stati messi in condizione di ricevere piccoli appezzamenti di terra da coltivare, in insediamenti sparsi nell’Uganda settentrionale, che il governo non chiama “campi di rifugiati” per sottolineare la loro libertà di movimento.
Un recente studio del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite concorda, e sottolinea che i profughi “beneficiano di quei paesi che li accolgono e che danno loro quello di cui hanno bisogno per costruire nuove vite”.
Certo le cose non sono semplici, ci sono contraddizioni e problemi come quelli nelle scuole, dove a volte il numero degli alunni aumenta a dismisura, con conseguente impatto negativo sulla qualità dell’istruzione. Oppure la preoccupazione degli agricoltori ugandesi di non aver terreno a sufficienza da coltivare per loro.
Dall’altra abbiamo i rifugiati che dicono che non esiste un piano a lungo termine per loro. Amou Deng era incinta con il suo quarto figlio quando ha lasciato Bor, a nord di Juba, a piedi nella stagione delle piogge. Non sa se il marito sia vivo perché erano separati nel conflitto del 2013. Nel gennaio 2014 è arrivata a Nyumanzi. Amou dice che la sua terra non è abbastanza grande da diventare autosufficiente, ma che non ha altra scelta se non rimanere in Uganda. Non ha marito e nessuna casa nel Sud Sudan – solo ricordi di paura.