Proponiamo un estratto dei dati generali sulla schiavitù moderna e di quelli riferiti alla regione dell’Africa Sub-sahariana, presentati da Walk Free Foundation, con il suo Global Slavery Index 2016. Le informazioni complete, con spaccati e approfondimenti per area geografia, studi di paese, informazioni sulla metodologia adottata sono consultabili al seguente indirizzo: http://www.globalslaveryindex.org/.
Global Slavery Index 2016, dati in generale
Il Global Slavery Index report pubblicato il 30 maggio 2016 prende in considerazione 167 paesi in tutto il mondo e misura il numero di persone sottoposte a stato di schiavitù. Dal 2014, sono state condotte 42.000 interviste in 53 lingue diverse: il risultato è una classifica ordinata sulla base della percentuale stimata di persone schiavizzate sull’intera popolazione.
Lo studio analizza i fattori che espongono al rischio schiavitù utilizzando 98 indicatori che afferiscono a quattro macro dimensioni:
- diritti civili e politici
- diritto alla salute e alla sicurezza economica
- diritto alla sicurezza individuale
- la condizione di rifugiato e lo stato di conflitto
Quindi prende in esame le risposte che i governi dei singoli paesi pongono in essere per prevenire, arginare e ridurre la portata del fenomeno.
Con il termine schiavitù si intendono una varietà di attività che siamo abituati a considerare reati, come l’induzione alla prostituzione e lo sfruttamento sessuale per fini commerciali, il matrimonio forzato praticato, ad esempio, in Corea del Nord cui sono costrette le donne; l’impiego di esseri umani nei lavori di fabbrica, in agricoltura, nelle strutture turistiche o nei lavori domestici senza salario o sottopagati; la nascita in condizione servile, la tratta degli esseri umani finalizzata a qualsiasi tipo di sfruttamento; il traffico di organi e l’impiego di bambini soldato.
L’analisi prende in considerazione la schiavitù di stato, intesa come conseguenza della pena detentiva quando essa prevede la condanna ai lavori forzati, o come lavoro coatto praticato, ad esempio, in Uzbekistan nella stagione della raccolta del cotone. Il cotone è il petrolio uzbeko e il suo raccolto coinvolge ogni anno 2 mln di persone e non risparmia i bambini. Oltre a Uzbekistan, praticano il lavoro forzato Turkmenistan, Tajikistan, Cina, Bielorussia ed Eritrea.
I governi dei singoli paesi affrontano il grave problema adottando misure molto diverse tra loro, anche nel grado di efficacia. I ricercatori non hanno potuto raccogliere i dati di cinque paesi a causa dei conflitti interni che stanno li devastando dal punto di vista materiale e che stanno mettendo a serio rischio le funzioni dei relativi governi. Questi paesi sono Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia, Siria e Yemen, teatri di sanguinose guerre. Tuttavia, per quanto riguarda i 161 paesi rimanenti è stato possibile stabilire che:
- 124 Paesi hanno criminalizzato il traffico di esseri umani, in linea con il Protocollo delle Nazioni Unite;
- 96 hanno adottato un Piano d’azione nazionale (PAN) per coordinare le politiche del governo;
- 150 sono i governi che intervengono sul problema con risposte non strutturate in favore delle vittime della schiavitù moderna.
Esiste una sorta di gradualità anche nelle risposte date dai governi dei diversi paesi presi in esame. Una risposta forte al fenomeno danno, ad esempio, i governi di Paesi Bassi (la più efficace in assoluto), Regno Unito, USA, Svezia, Australia, Portogallo, Spagna, Croazia, Belgio e Norvegia. L’efficacia delle misure adottate è direttamente collegata alla disponibilità più che sufficiente di risorse finanziarie, alla forte volontà politica dei espressa dai governi nel perseguire i reati connessi al fenomeno; al deciso sostegno che la società civile esprime nei confronti delle scelte di governo in tale materia. Nonostante le scarse risorse finanziarie, riescono a dare una risposta relativamente forte paesi come Filippine, Brasile, Georgia, Giamaica, Croazia, Montenegro, Macedonia, Moldavia, Albania e Serbia. Nei paesi in cui la schiavitù è percentualmente più alta, invece, le misure adottate dai governi sono largamente inadeguate, quando non si riscontri anche la loro complicità. Sono questi i paesi in cui si registra anche il livello più alto di conflittualità interna e/o di instabilità politica. Si tratta di Corea del Nord, Iran, Eritrea, Guinea Equatoriale, Hong Kong, Repubblica Centrafricana, Papua Nuova Guinea, Guinea, Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan. Infine, in alcuni paesi ricchi, le politiche anti-schiavitù adottate dai governi forniscono soluzioni largamente insufficienti, nonostante la larghezza delle risorse ni. Sono Qatar, Singapore, Kuwait, Brunei, Arabia Saudita, Bahrein, Oman, Giappone e Corea del Sud.
La situazione nell’Africa Sub-Sahariana
Dai dati raccolti da Walk Free Foundation emerge che il 13,6% della popolazione totale ridotta in schiavitù (pari a 6.245.800 persone) vive nell’Africa Sub-Sahariana. Nell’area presa in esame, i paesi in cui si registra il più alto tasso di schiavitù sono Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Mauritania.
Come evidenziano le indagini, in questa regione la schiavitù si presenta soprattutto come lavoro forzato e matrimonio forzato e precoce. Un esempio per tutti è il Ghana, in cui si stima vivano oltre 100 mila persone in stato di schiavitù, l’85% delle quali costrette ai lavori forzati e l’altro 15% al matrimonio.
I settori in cui si impiega il lavoro forzato sono, com’è facile immaginare, l’agricoltura, la pesca, le vendite al dettaglio, il lavoro manuale e quello di fabbrica.
Lo studio ha rilevato che in Nigeria il lavoro forzato è impiegato prevalentemente nel settore domestico, anche se WFF non ha potuto raccogliere dati in tre regioni dello stato a causa della forte conflittualità presente.
In Sud-Africa, invece, la schiavitù è una preziosa risorsa nelle imprese criminali che gestiscono il racket della prostituzione e del traffico di droga, ma è diffusa anche nel settore agricolo, nell’edilizia e nel lavoro di fabbrica.
In Eritrea e nello Swaziland i governi sanzionano attivamente l’uso di lavoro forzato. Nello Swaziland, in particolare, ciò è avvenuto dopo che i media internazionali hanno reso pubblica la pratica del lavoro forzato e del lavoro minorile non pagato nell’allevamento di bestiame. Il governo eritreo, invece, prevede un anno di servizio nazionale che si configura chiaramente come lavoro forzato. La durata, che ufficialmente è di un anno, risulta a tal punto indefinita che l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) ha stabilito che i “renitenti al servizio” siano considerati a tutti gli effetti rifugiati, mentre il Regno Unito raccomanda di concedere asilo agli eritrei che si sono sottratti a tale servizio.
Anche lo sfruttamento sessuale di soggetti ridotti in schiavitù è diffuso in tutta la regione sub-sahariana, tuttavia esso risulta particolarmente diffuso in quei territori o paesi in cui sono più accentuate la conflittualità interna o l’instabilità politica. E’ il caso del Sud Sudan, i cui campi profughi o le zone protette destinate ai rifugiati sono diventati “campi di stupro”, dove donne e ragazze costituiscono la ricompensa per i soldati di ritorno dal campo di combattimento. Secondo i media, anche le forze governative praticano il rapimento di ragazze e donne con la stessa finalità, tanto che le organizzazioni umanitarie che operano sul campo dichiarano che tra l’aprile ed il settembre 2015 sono state violentate 1300 tra donne e ragazze e ne sono state rapite oltre 1600. Il traffico di donne e bambini da avviare al commercio sessuale all’estero è diffuso anche tra Etiopia ed Eritrea.
Dal report GSI emerge che il traffico e lo sfruttamento di bambini è un’altra delle forme di violazione della libertà diffuse nella regione, mentre uno studio della Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC) ha stabilito che l’Africa Sub-sahariana è la regione del mondo in cui la tratta dei bambini è la pratica illegale più diffusa. Si stima che in Ghana siano 21mila i bambini impiegati nella pesca nel bacino del lago Volta; nel Togo, la povertà e la mancanza di istruzione, hanno indotto le famiglie ad affidare i loro figli a intermediari che li trasferiscono in siti di sfruttamento in cui, specie le ragazze, sono impiegate nei lavori domestici o avviate alla prostituzione e allo sfruttamento sessuale, mentre i ragazzi sono impiegati nei lavori agricoli.
I bambini sono utilizzati anche per l’accattonaggio. E’ il caso di Guinea-Bissau e di Senegal, dove le famiglie inviano i loro figli presso le Daara (scuole coraniche) dirette da maestri – marabutti – che le comunità riconoscono e venerano come santi viventi, spingendoli a diventare talibés (da Taliban, studenti coranici). Si tratta di bambini tra i 3 e i 15 anni provenienti principalmente da villaggi nelle zone rurali non solo del Senegal, ma anche del Mali, del Gambia, e delle due Guinee. Questa tradizione alimenta il giro d’affari del trafficanti di bambini e si stima che in Senegal, nella sola zona di Dakar, vivano oltre 30 mila talibés che, in realtà, praticano l’accattonaggio forzato.
Nonostante in Africa si sia registrato un calo, l’uso dei bambini-soldato nei conflitti rimane un problema in tutta la regione sub-sahariana. Questo fenomeno riflette una complessa realtà economica e sociale e le Nazioni Unite calcolano che nel 2015, nella Repubblica Democratica del Congo siano stati arruolati 241 bambini, 80 dei quali sono morti, mentre 92 sono stati mutilati duranti il combattimento. Nella Repubblica Centrafricana, si stima che siano stati arruolati tra i 6.000 e i 10.000; si hanno, inoltre, prove che il Chad, che ha ufficialmente vietato l’impiego di bambini nei ranghi militari, non riesca a mantenere fede ai suoi stessi protocolli per la liberazione dei bambini arruolati in passato.
Un’altra forma di schiavitù è la pratica del matrimonio precoce, o infantile, che pone Madagascar, Malawi, Zambia, Guinea, Sierra Leone ed Eritrea tra i primi venti paesi al mondo in cui si riscontra questa usanza. La progressione del fenomeno è tale che l’Unicef stima che nel 2050 la metà delle spose bambine sarà africana. La povertà e il bassissimo livello d’istruzione sono i predittori più significativi del verificarsi del fenomeno e nemmeno un dimezzamento del suo tasso attuale del fenomeno porterebbe l’Africa Sub-sahariana ai livelli dei paesi del Nord-Africa. Inoltre, mentre la disoccupazione e la perdita di status sociale ha indotto i maschi a sposarsi più tardi, questo non accade nella popolazione femminile. Spesso tale pratica si aggrava a causa dei conflitti e della crisi economica e il matrimonio precoce diviene una strategia per proteggere le bambine e le ragazzine dal rischio di molestie e/o stupro da parte dei militari. La Repubblica Centrafricana, ad esempio, ha uno dei tassi di incidenza del fenomeno più alti che si registrano nell’Africa sub-sahariana.
Quali sono i fattori che espongono la popolazione della regione Sub-Sahariana alla schiavitù?
Nel Sud-Sahara la schiavitù è determinata dalla condizione di povertà diffusa, dai numerosi conflitti in essere, dalle crisi umanitarie ed ambientali e dalle conseguenti migrazioni. L’indice medio di vulnerabilità è calcolato intorno a 47.3/100. L’indice di vulnerabilità è un indicatore costruito con l’obiettivo di fornire una misura sintetica del livello di vulnerabilità sociale e materiale ed è in grado di esprimere con un unico valore i diversi aspetti di un fenomeno di natura multidimensionale, e che, per la sua facile lettura, agevola i confronti territoriali e temporali.
In Nigeria e in Camerun, a seguito dell’escalation di violenza dovuta al conflitto scatenato da Boko Haram, ha avuto luogo una migrazione che ha fatto esplodere una crisi umanitaria. A partire dal 2015 sono stati sfollati 2.5 Mln di persone e 20mila ne sono state uccise. Il conflitto è in ascesa anche in Ciad e Camerun, dove Boko Haram si serve, tra l’altro, di giovani imprenditori che arruola in cambio di prestiti in denaro.
Anche le migrazioni interne aumentano il rischio di traffico di esseri umani. In Burundi, le violenze scoppiate alla terza elezione del presidente Nkurunziza hanno prodotto 145mila profughi. Il conflitto in Somalia e nel Ruanda ha prodotto e continua a provocare gli stessi effetti.
Nella Repubblica Centrafricana, la guerra civile ha causato la migrazione interna di circa un quarto della popolazione del paese e 450 mila persone rimangono sfollate. In particolare, sono ad alto rischio i bambini sfollati poiché essi sono esposti al lavoro domestico forzato, o nel settore agricolo o allo sfruttamento sessuale.
I disordini nella Repubblica Democratica del Congo hanno prodotto circa 2.8 Mln di profughi, a rischio sfruttamento da parte dei gruppi armati nei lavori forzati o di reclutamento obbligatorio. I bambini senzatetto della Capitale di Kinshasa sono esposti ai rischi del lavoro servile, dell’accattonaggio e dello sfruttamento sessuale.
La crescita economica molto lenta e il fallimento delle politiche sull’occupazione hanno spinto gli abitanti degli stati occidentali e centrali dell’Africa Sub-sahariana a cercare lavoro in Europa e in Medio Oriente. I processi migratori interni e le emigrazioni, a causa della precarietà e delle difficoltà che li caratterizzano, rendono estremamente vulnerabili, esposti ai rischi di sfruttamento gli uomini e le donne che intraprendono questi “viaggi della speranza”. I percorsi migratori, infatti, incrociano le rotte del traffico di esseri umani e la tratta e il rapimento sono all’ordine del giorno lungo le strade per l’Arabia Saudita, o che attraversano lo Yemen, o la Somalia, o il Sud-Sudan, alimentati dai conflitti in corso. Molto esposti sono, ovviamente, i bambini, come dimostrano i rapporti di alcune ONG che descrivono rapimenti sistematici di bambini in fuga dal conflitto yemenita e il loro trasferimento forzato in Kenia per l’immissione nel mercato del sesso.
Poiché Egitto ed Israele hanno inasprito i controlli di sicurezza lungo i loro confini, i migranti diretti in Italia o nei paesi baltici attraversano la Libia, regione che sta vivendo ancora un’acuta instabilità, dopo la caduta di Gheddafi. Qui, i migranti sono costretti a lavorare per guadagnarsi il passaggio verso l’Italia e grazie all’accentuata xenofobia nei confronti delle popolazioni sub-sahariane, le organizzazioni criminali che gestiscono l’enorme volume d’affari legato allo sfruttamento del lavoro forzato possono agire praticamente indisturbate.
Com’è affrontato dai governi il fenomeno della schiavitù moderna
Le risposte date dai governi degli stati della regione in questione si connotano per una protezione inadeguata nei confronti delle vittime del fenomeno nelle sue numerose manifestazioni e per la mancanza di coordinamento tra i governi stessi e le ONG presenti sul territorio. Il punteggio medio assegnato da WFF è 28.2/100
Somalia, Ciad, Sudan. Repubblica Democratica del Congo hanno affrontato una fase di grave instabilità e violenza interna, con la perdita del controllo su alcuni territori interni, pertanto la loro capacità di monitorare ed arginare il fenomeno schiavitù risulta molto ridotta.
Nonostante in 33 dei 45 stati dell’area, sin dal 2010, siano in corso campagne di sensibilizzazione contro la schiavitù moderna, pochi hanno sviluppato strategie idonee ad individuare con certezza le vittime. L’unico paese che ha reso questa pratica regolare è stato il Burundi in cui, dal 2010 al 2014, sono state realizzate articolate campagne contro la tratta.
Se 28 paesi sono in grado di documentare la pratica della rilevazione del fenomeno, meno della metà degli stessi possono rilevare tutti i dati demografici e ancor meno sono quelli che hanno approntato un servizio di traduzione. Meccanismi di reporting completo sono presenti solo in Lesotho e Sud Africa.
Forme di assistenza per le vittime scampate alla schiavitù sono documentate in maniera generica in circa 40 paesi della regione; in 30 paesi i relativi governi hanno dato un contributo attivo ai servizi di assistenza alle vittime. Purtroppo, meno della metà di questi governi fornisce servizi a lungo termine per il reinserimento ed un notevole divario emerge, in tutta la regione, tra i servizi di assistenza forniti agli adulti e quelli dati agli uomini.
Anche dove si registrano servizi di assistenza alle vittime, molto precaria è in tutti i casi la qualità degli stessi. Nel Malawi, ad esempio, le condizioni di vita nell’unico “rifugio” governativo per bambini strappati allo sfruttamento sessuale erano a tal punto precarie che i piccoli sono stati ricondotti ai bordelli dai quali erano stati sottratti.
La mancanza di risorse finanziarie è l’ostacolo principale alla realizzazione anche dei Piani Nazionali d’Azione, presenti in 20 paesi.
Sono 27 i governi che hanno organizzato unità di polizia specifiche per affrontare i reati correlati al fenomeno della schiavitù moderna, tuttavia nessuno di essi dispone di risorse finanziarie e di personale a sufficienza per organizzarle in modo efficacie. Solo il Ghana ha definito procedure operative standard per affrontare le diverse manifestazioni del problema; solo Gambia, Nigeria e Senegal sono in grado di garantire protezione alle vittime, mentre Gambia, Malawi, Namibia, Niger, Nigeria e Swaziland sono nella condizione di fornire protezione ai testimoni durante i processi. Infine, nonostante sia dimostrata l’enorme vulnerabilità dei bambini, solo 13 paesi prevedono misure speciali di tutela per i bambini implicati nei procedimenti penali.
Mentre 26 governi hanno criminalizzato il traffico di uomini, donne e bambini, 25 sono quelli che hanno criminalizzato il lavoro forzato. Molto pochi, invece, sono quelli che prevedono pene adeguate per altre forme di schiavitù. Solo 14 paesi prevedono l’incriminazione di sfruttatori e favoreggiatori della prostituzione minorile e dello sfruttamento sessuale dei bambini, 6 governi hanno criminalizzato il matrimonio forzato. Solo il Burkina Faso ha criminalizzato ogni forma di schiavitù, compreso l’uso dei bambini nei conflitti armati.
. Così, la magistratura del Benin sospende la pena ai trafficanti di bambini, rilasciandoli, mentre in Tanzania il reato di riduzione ai lavori forzati è punito con una pena pecuniaria ed una sanzione amministrativa.
Tutti gli stati della regione fanno parte di organismi regionale che agiscono contro la schiavitù o il traffico di esseri umani; i governi che hanno sottoscritto accordi bilaterali di cooperazione in materia di schiavitù moderna sono, invece, 19. L’efficacia di tali accordi, tuttavia, non è documentata.