Nel giro di due anni, più di 1.100 persone sono state uccise tra Lubero e Beni, città del nord del Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Sono oltre 100 i morti dall’inizio dell’anno, nonostante la presenza dei caschi blu della missione MONUSCO.
Beni è la città più colpita e ogni giorno che passa ha la sua quota di morti. Una serie macabra innescata da inizio ottobre del 2014. Gruppi armati stranieri e milizie locali regnano in città e nelle varie località della zona facendo il bello e brutto tempo. A poco o nulla sono valse le denunce dei missionari comboniani, presenti in zona, e delle organizzazioni della società civile locale. In meno di cinque mesi, almeno 93 persone sono state uccise. “Molti civili sono stati massacrati a colpi di machete e le loro case sono state bruciate: è orribile! “, Sottolinea un difensore dei diritti umani, raggiunto telefonicamente a Mbau, villaggio devastato il territorio.
Beni e il suo triangolo della morte
Sono tre le comunità coinvolte in questa serie di omicidi innescati a partire dal mese di ottobre del 2014 a nord della città di Beni, Mbau Kamango nel chiefdom di Watalinga, più a est, e Eringeti, a nord di Mbau. Da quella data centinaia sono state le persone massacrate. “Oltre 600 morti”, secondo il dottor Denis Mukwege che in una dichiarazione di qualche giorno fa ha descritto : “immagini di queste atrocità di massa” commessi nel territorio del nord-est Repubblica Democratica del Congo: “Le donne incinte sventrate, bambini mutilati, gli esseri umani legati e macellati con i coltelli. ” Il saldo sarebbe in realtà più pesante ancora, secondo Omar Kavota, coordinatore del Centro Studi per la promozione della pace, della democrazia e dei diritti umani (Cepadho), con sede in Nord Kivu. “Fin dall’inizio dei massacri, abbiamo contato almeno 800 morti in territorio Beni e dintorni”, dice l’ex portavoce della società civile del Nord Kivu. Nel rapporto stilato da una ONG locale diffuso con una lettera aperta il 14 maggio a Joseph Kabila, Presidente della repubblica Democratica del Congo, “oltre 1116 persone sono state brutalmente uccisi tra ottobre 2014 e maggio 2016, una media di 60 persone uccise al mese”.
#Justice4Beni, # JeSuisBeni … I congolesi sono indignati
Purtroppo da quando le forze armate della RDC (FARDC) hanno lanciato l’operazione “Sukola 1” (rastrellamento e pulizia, in lingua lingala) nel gennaio 2014, contro i ribelli ugandesi delle Forze Democratiche Alleate (ADF), responsabili dei massacri Beni, nulla è cambiato sul terreno. Le poche roccaforti dell’ADF sono state prese , ma gli abusi contro i civili, salvo qualche periodo di relativa calma, non sono mai cessate. I rapporti delle ONG e gli esperti delle Nazioni Unite presenti in zona , continuano a sospettare di alcuni ufficiali dell’esercito di essere complici degli aggressori.
Una situazione che fa infuriare congolesi che hanno recentemente lanciato azioni di protesta, come il sit-in il 14 maggio a Goma, organizzato dal movimento cittadino Lucha, davanti alla sede della MONUSCO, accusato di passività. Diverse campagne di sensibilizzazione hanno anche invaso il Web: petizioni, video, dichiarazioni di stelle congolesi come il rapper Youssoupha, o il calciatore Cédric Bakambu , contro gli arresti dei leader sui social network.
Ultime in ordine di tempo, che hanno trovato uno squarcio di visibilità sui media italiani, è stata la denuncia del missionario italiano Gaspare Di Vincenzo, padre comboniano, che ha esplicitamente affermato che gli aggressori avrebbero parlato in lingala, lingua autoctona, con esattezza, bantu parlata nella Repubblica Democratica del Congo e usata dai soldati congolesi.