Quando al mondo ci sono 840 milioni di persone denutrite e ogni cinque secondi un bambino muore di fame, oltre al cibo, evidentemente, manca anche altro: la democrazia. Si è aperto con questa cruda osservazione il dibattito organizzato da Time for Africa lo scorso venerdì.
Chiamati a discutere dell’attuale emergenza alimentare, nella sala conferenze del Sunsplash, Festival internazionale di musica reggae che si tiene a Osoppo (Udine) dal 3 al 12 luglio, sono stati Francesco Aureli, direttore di Amref Italia, John Kariuki Mwangi, keniota, vicepresidente internazionale di Slow Food, Federico Battera, docente all’Università di Trieste e Raffaele Masto, giornalista di Radio popolare.
Le concause dell’attuale emergenza alimentare sono molteplici. Politiche agrarie attuate da governi spesso corrotti e poco propensi a distribuire equamente le risorse, dettami economici imposti dagli organismi sovranazionali ai paesi in via di sviluppo, il rincaro del petrolio, la speculazione finanziaria sul mercato alimentare e dei biocarburanti, i cambiamenti climatici sono quelle emerse dagli interventi dei relatori.
Un groviglio di fattori al quale vanno aggiunte, secondo la lettura proposta dal moderatore Umberto Marin, le storture create dalla progressiva occidentalizzazione del mondo. Distorsioni di fronte alle quali gli uomini devono trovare nuove risposte, quelle che sono mancate al vertice Fao dello scorso giugno.
L’Africa sub-sahariana, che da più di un decennio percorre faticosamente l’irto sentiero verso la democrazia, sembra zoppicare. A sostenerla nel suo cammino ci sono maggiori libertà politiche, di espressione e di associazione, oltre che un’opinione pubblica più esigente che chiede ai suoi governanti nuove politiche sociali. Ma il problema della fame è sempre presente e, con la sua imponenza, continua a dilagare. Nonostante molti paesi siano riusciti, soprattutto a partire dal nuovo millennio, ad avviare una più o meno timida crescita economica, dando vita a una nuova classe media, non ce l’hanno fatta invece a sconfiggere la povertà estrema – spiega Battera.
L’attuale crisi alimentare certamente impatterà sulla società africana, in quanto la miseria, che facilita la diffusione della microcriminalità, specie nelle città, predispone la popolazione più giovane a manifestare il suo disagio attraverso la violenza. I giornali africani, infatti, sottolineano come nel continente sia in atto un’emergenza generazionale, che può destabilizzare anche gli stati più democratici, specie in occasione delle elezioni.
E a proposito di stampa, Aureli fa notare come la crisi alimentare, a lungo pressoché ignorata dai grandi mezzi di informazione occidentali, nonché dai suoi governi, si manifestasse ben prima del vertice Fao di inizio giugno. Osservando, oltretutto, come i segnali di allarme fossero chiaramente leggibili già nel rapporto che la stessa organizzazione pubblicò nell’autunno del 2006. Ora che il problema è degenerato in emergenza, acquisendo così i criteri di “notiziabilità”, la stampa continua a trascurare importanti aspetti, che, invece, secondo Masto, andrebbero evidenziati.
Prima fra tutti la questione della responsabilità: Si parla poco del fatto che le popolazioni africane, che sono coloro che risentono maggiormente della crisi, non ne abbiano quasi colpa. Pensiamo alla Sierra Leone, ad esempio, che qualche decennio fa era più o meno autosufficiente sul piano alimentare, mentre da un po’ di tempo è costretta a importare riso. Oggi, chi parla dell’emergenza alimentare di questo paese tende a non ricordare che è stato travagliato da uno dei più feroci conflitti, durato per più di dieci anni. Un conflitto che non è stato uno scontro tribale, etichetta ingiustamente utilizzata per spiegare le guerre africane, bensì una guerra per il controllo sulle sue ricchissime miniere di diamanti, contese dalle grandi potenze e dalle multinazionali che vi fanno riferimento, precisa il giornalista, che illustra, inoltre, come l’informazione non spieghi i meccanismi profondi che stanno alla base dell’insicurezza alimentare.
Il secondo esempio proposto è la fascia del Sahel, dove la popolazione autoctona sa benissimo come affrontare siccità e carestia, secondo dinamiche efficientissime che funzionano da secoli. Non è più in grado di farlo, invece, quando i delicati equilibri vengono rotti dall’insorgere di un conflitto. In presenza di disordini, i pastori nomadi del Nord, non potendo più muoversi liberamente sul territorio, non riescono a raggingere gli agricoltori del Sud, dovendo così interrompere anche il loro tradizionale scambio di proteine e carboidrati. Da qui, la fame. Un meccanismo che i media non sviscerano abbastanza.
In Kenya, racconta Mwangi, la crisi alimentare risente non solo dell’impennata globale dei prezzi e della prolungata mala gestione delle politiche agricole – che hanno privilegiato le monoculture anziché la diversificazione, distruggendo la biodiversità, prosciugando i fiumi, inquinando le acque e impoverendo la dieta dei kenioti ma anche dalla recente crisi postelettorale. Durante gli scontri dello scorso dicembre, sono stati bruciati negozi, scorte di cibo, attività economiche, il bestiame di molti allevatori è stato rubato, i contadini sono scappati verso le città, abbandonando le proprie terre e diventando sempre più dipendenti dagli aiuti internazionali, che, come spiega Aureli, sostengono operazioni deleterie per i paesi poveri, alimentando il sottosviluppo. Questo accade perché il meccanismo di cooperazione è malato.
I paesi che vengono sostenuti aggiunge il direttore di Amref – non sono quelli che hanno più bisogno, in base agli indici di sviluppo umano, ma sono quelli con cui si intrattengono rapporti di politica estera, dietro ai quali ci sono interessi economici e geostrategici, responsabili anche della crisi alimentare. Tutto ciò si ripercuote sugli aiuti allo sviluppo, che sono legati all’utilizzo di Ong italiane, quando invece le organizzazioni locali sarebbero capaci di agire più efficacemente sui territori con un minor dispendio di energia e denaro.Un sistema, quello della cooperazione e del volontariato in Italia – ricorda Masto – attorno al quale ruotano circa 40 mila persone. Di questa cifra possiamo stimare che settemila siano posti di lavoro, possibili grazie all’esistenza della società civile africana e le sue Ong. Senza di esse, quei posti di lavoro verrebbero a mancare e noi ci ritroveremmo ad affrontare un’emergenza economica nazionale. Alla luce di ciò, va tenuto ben presente che non siamo noi ad aiutare gli africani ma che la relazione d’aiuto è reciproca.
Anche di questi meccanismi malati la stampa si dovrebbe occupare in modo più approfondito, conclude Aureli. Invece, l’informazione oggi si basa su luoghi comuni, – aggiunge Masto -. Segue le spinte di lobby politiche ed economiche e accende i riflettori su eventi come i summit del G8 (in corso a Tokyo in questi giorni), anziché parlare dei provvedimenti che gli stessi africani adottano e che sono molto più efficaci di quelli pensati dalla cooperazione o delle grandi organizzazioni.
Dell’Africa si sa poco, la si racconta attraverso le cifre degli organismi internazionali, che però non spiegano quell’universo di soluzioni messe in atto dagli indigeni per affrontare guerre, crisi alimentari e pesanti disagi sociali. Prendiamo come esempio Luanda, capitale dell’Angola, enormemente cresciuta durante la guerra civile, q
uando le persone scappavano dalle campagne per ammassarsi in una città che ora è abitata da quattro, cinque milioni di persone. Secondo la Banca Mondiale, continua il giornalista, questa sterminata massa di uomini vive con meno di un dollaro procapite al giorno. Una cifra che è incompatibile con il costo della vita locale. Ciò vorrebbe dire, stando alle cifre dell’istituzione, che quei milioni di persone sono morti. E invece non è vero. Quelle persone vivono. La domanda da farsi è piuttosto: “come vivono”? Ebbene, l’economia, divenuta una scienza feticcio nel nostro quotidiano, non ci sa spiegare come quel miracolo si compie. A Luanda avviene nel mercato di Roque Santeiro, che mi è capitato di visitare. Frequentato da circa un milione di persone al giorno, questo mercato, che è uno tra i più vasti dell’Africa australe, offre di tutto, dal bazuka al peperone, dal carro armato alle cipolle. E’ un miracolo che chiaramente non è interamente positivo, visto anche il controllo che la malavita esercita su questo luogo. Resta però il fatto che grazie a esso milioni di cittadini sopravvivono.
Fuori dall’economia ufficiale. Sono queste le cose che noi giornalisti dovremmo cercare di raccontare. Poiché – conclude Masto – c’è tutta una parte di Africa che andrebbe raccontata e studiata, quasi come fecero i primi esploratori alla ricerca delle Montagne della Luna.
Daniela Bandelli