Il Rwanda, un Paese di dodici milioni di abitanti, tra i più poveri dell’Africa, attraverso gli aiuti internazionali supportati dall’impegno della sua governance, è riuscito a ricostruire, all’indomani della tragedia del 1994, la propria statualità e ritessere le trame di un tessuto sociale lacerato. Questo lavoro dà conto di come attraverso il perseguimento di una forte identità nazionale, innervata dalla riscoperta dei valori della tradizione, una sorprendente apertura all’innovazione e moderni modelli gestionali, l’attuale governance ruandese, grazie agli aiuti, sia riuscita a dare vita a una storia di successo, esempio per l’intero continente africano.
Nel tempo, a fatica e pur fra mille contraddizioni, in cui il percorso nella conquista delle libertà civili è ancora lungo e accidentato e il solco che divide il livello di vita tra città e campagne rischia di accentuarsi, si stanno purtuttavia creando le condizioni perché i ruandesi possano vivere con dignità nel loro Paese, concorrendo al suo sviluppo per dare concretezza al loro diritto a non emigrare. E questo perché qualcuno, in anticipo di anni sui primi barconi solcanti il Mediterraneo, li ha aiutati a casa loro: dalle grandi istituzioni internazionali ai paesi donatori, dalle grandi ONG fino alla più piccola delle onlus e all’ultimo dei volontari.
Questo lavoro vuole essere un piccolo tenativo di minare le certezze di coloro che arrivano ad affermare, con invidiabile sicurezza, che parlare di aiuti “significa scaricare il problema”. Dimenticando, peraltro, che il modello di un’accoglienza, alla prova dei fatti incapace di dare risposte efficaci alle stesse istanze dei nuovi venuti, cioè posti di lavoro allo stato inesistenti, si riduce a passiva attesa di chi, avendone i mezzi, è in grado di accollarsi viaggi drammatici anche a rischio della vita, per arrivare fin sulle coste dell’Europa. Nel caso del Rwanda tale modello si sarebbe rivelato drammaticamente inefficace: centinaia di migliaia di rifugiati ruandesi sarebbero, ancora oggi dopo oltre venti anni, relegati nell’inferno di Goma e degli altri campi profughi delle zona, in attesa che qualcuno vada da loro ad aiutarli. E tanto basterebbe per instillare qualche dubbio sulla drammatica inefficacia di un modello, quello della sola accoglienza, che ritiene di poter rispondere alle sfide epocali, che ci vengono dalle centinaia di milioni di persone del sud del mondo, semplicemente prendendosi comoda cura di poche decine di migliaia di migranti economici.