Africa: elezioni e democrazia
(di Annamaria Ceccarello)
Negli anni Novanta, l’Africa aveva fatto notevoli passi avanti verso la democrazia. In Mozambico si era conclusa la guerra civile; lo Zambia aveva conosciuto il primo cambio di governo democratico; il Sudafrica era finalmente riuscito a liberarsi in modo pacifico dell’apartheid; in Zaire, Mobutu era stato rimosso dalla guida del paese che, in seguito, sarebbe diventato la Repubblica Democratica del Congo. Anche Ghana e Nigeria erano riuscite ad abbracciare la democrazia.
Elezioni e democrazia sono, dunque, i due elementi di rinnovamento dell’azione politica dell’Africa Sub-sahariana. Tuttavia, il ricorso alle elezioni non ha necessariamente significato l’instaurarsi di governi democratici. Spesso, infatti, partiti e fazioni si sono confrontati in tornate elettorali per trovare una legittimazione di fronte alla comunità internazionale e poter, successivamente, introdurre leggi elettorali e/o manipolare le leggi fondamentali per restare al potere.
Se, quindi, l’espressione del voto è il carattere essenziale della democrazia, quest’ultima non si esaurisce in esso, ma ne prende le mosse per reggersi su garanzie, diritti e libertà.
La differente “interpretazione” del metodo elettorale ha favorito, in alcuni paesi (es. Congo, Ruanda, Burundi), l’instaurarsi di governi guidati da “uomini forti” che hanno manipolato la carta costituzionale per garantirsi continuità d’azione, superando i limiti di mandato; che hanno accusato le opposizioni di brogli durante le operazioni elettorali o hanno fatto appello a Commissioni elettorali e Alte Corti “addomesticate” da loro stessi, per ottenere la delegittimazione degli avversari politici. In altri paesi, i partiti dominanti hanno garantito la “successione” a componenti interni del proprio schieramento, mentre altri paesi come, ad esempio, Ghana, Sudafrica e Benin si sono rivelati, pur tra luci ed ombre, gli stati in cui il processo di democratizzazione ha ottenuto maggior successo.
Il 2017, in ogni caso, si aperto sotto i migliori auspici. Dopo 22 anni di presidenza, durante i quali ha governato con il pugno di ferro, violando i diritti civili della popolazione, vietando nei fatti la libertà di opinione e di stampa, Yahya Jammeh ha scelto la via dell’esilio e il Gambia ha ripreso la sua corsa verso la democrazia. La fuga del dittatore non è stata senza effetti: Jammeh, infatti, è fuggito dopo aver vuotato le casse dello stato. Tuttavia, per il piccolo paese africano questo evento potrebbe costituire una svolta decisiva, soprattutto se Adama Barrow, il presidente neo-eletto, riuscirà a mantenere le promesse elettorali e, in modo particolare quella che riguarda l’introduzione nella Costituzione dei limiti di mandato presidenziale.
Rilevante è anche l’esito delle elezioni in Kenya dove, nei primi giorni di settembre, la Corte Suprema ha invalidato la rielezione del presidente uscente, Uhuru Kenyatta, avvenute l’8 agosto per le irregolarità riscontrate e denunciate dalle opposizioni e non registrate dalla IEBC (Commissione elettorale nazionale). La Corte Suprema ha individuato la data delle nuove elezioni, il 17 ottobre 2017, con il plauso del Presidente dell’Unione Africana e presidente della Guinea, Alpha Condè. Kenyatta, presidente dal 2013, nel corso del suo mandato era stato inquisito dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità per omicidio, deportazione, stupro, persecuzione, e altri atti inumani perpetrati contro gli avversari politici collegabili al Orange Democratic Movement.
Di segno diverso appaiono le sorti della tornata elettorale che ha avuto luogo in Angola, dove il Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola (MPLA), che ha governato il paese per quarantadue anni, ha raccolto 61.07% dei voti e la maggioranza assoluta in Parlamento (115 seggi su 220), secondo i risultati finali annunciati dal presidente del CNE (Commissione Elettorale Nazionale), Andre da Silva Neto.
Esito elettorale scontato che mette l’Angola nelle mani di Joao Lourenço, ex generale, 63 anni, ministro della Difesa, sposato, padre di sei figli e soprattutto delfino di Josè Eduardo Dos Santos. I due principali concorrenti del MPLA, l’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (Unita) e Casa-CE, non appena confermata la vittoria del MPLA, l’hanno definita “illegale e incostituzionale”. Tra le tante “irregolarità” individuate dagli oppositori del regime sono elencate “la scomparsa di urne, la scomparsa delle schede elettorali, la presenza illegittima di persone estranee alle operazioni di voto-scrutinio”
Dopo un periodo di dittatura iniziato immediatamente dopo l’indipendenza, dagli anni Novanta in Togo si è avviato un processo che avrebbe dovuto portare in breve tempo a una democrazia multipartitica. Sebbene questa transizione sia formalmente avvenuta, l’Unione Africana e le Nazioni Unite, assieme a molte altre organizzazioni internazionali, hanno accusato l’attuale presidente Faure Gnassingbé di colpo di stato.
Il 3 agosto scorso, il suo avversario politico Jean-Pierre Fabre alla testa di migliaia di manifestanti ha sfilato per le strade della capitale Lomè, scandendo slogan contro il potere dominante. L’opposizione chiede che il mandato presidenziale sia rivisto e, in particolare, che sia reintrodotto il limite di due mandati di cinque anni ciascuno, che sia riformata la legge elettorale con l’introduzione del doppio turno con ballottaggio sia per le elezioni legislative che per le elezioni presidenziali. Le opposizioni, infine, chiedono la riforma della Corte Costituzionale e della Commissione elettorale nazionale indipendente.
Si teme, insomma, che dopo essere stato eletto una prima volta nel 2005 e rieletto nelle successive tornate del 2010 e del 2015, Faure Gnassingbé voglia affidare alla violazione della Costituzione la sua permanenza al potere.
Nemmeno in Sudafrica, oggi, la democrazia può dirsi garantita, dopo vent’anni di egemonia dell’African National Congress. Se si può serenamente ammettere che le condizioni di vita della popolazione nera siano notevolmente migliorate dal 1994 a oggi, moltissimo resta ancora da fare, mentre garanzie e diritti son ben lungi dall’essere assicurati. La caratteristica costante dei servizi e degli interventi a miglioramento delle condizioni generali della popolazione è la precarietà; il tasso di disoccupazione è intorno al 36% e incide soprattutto tra la popolazione nera; proteste quotidiane e scioperi sono repressi con la violenza o nel sangue, come è accaduto a Marikana, dove 34 minatori sono stati uccisi per aver rivendicato migliori condizioni di lavoro e di salario; larga diffusione della corruzione. A tal proposito si pensi al caso dello stesso presidente Zuma, accusato e condannato per aver speso il denaro pubblico (16 milioni di euro) allo scopo di migliorare la sicurezza della sua splendida villa. Nel 2016, infine, Jacob Zuma ha affrontato una mozione di impeachment e un voto di sfiducia. Nonostante l’abolizione dell’apartheid, ricchezza, benessere e certezze continuano ad essere retaggio soprattutto dei bianchi o degli accoliti del presidente Zuma.
Indipendentemente dagli esiti delle future consultazioni, sarebbe profondamente sbagliato negare che la pratica elettorale stia diventando una prassi di democrazia anche nell’Africa Sub-sahariana, pur con tutti i vizi che sono stati messi in luce. E’ vero che il momento elettorale assicura più frequentemente la continuità che l’alternanza, ma ciascuno di questi atti apre una nuova opportunità al cambiamento politico, anche dopo anni di stagnazione. Non sempre i cambiamenti di leadership producono gli effetti sperati sui problemi economici, sociali e politici; non rappresentano il punto di arrivo del processo di democratizzazione, ma restano comunque un segnale di dinamismo nella vita politica di un Paese e possono aprire le porte a interventi di riforme più maturi e strutturati.
Per approfondire leggi questo interessante articolo di Luca Bussotti:
La questione elettorale :alla base dell’insuccesso delle democrazie africane