
In occasione della Giornata dell’Africa (o Africa Day), che si celebra ogni anno il 25 maggio per commemorare la fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) nel 1963, precursore dell’attuale Unione Africana (UA) pubblichiamo informa riassuntiva, il contributo del filosofo mozambicano Severino Ngoenha, che richiama la necessità,per l’occasione, al silenzio come atto di coscienza.
1) Il Silenzio come atto di coscienza
Il 25 maggio, giornata dell’Africa, non dovrebbe essere un rito festivo, ma un momento di silenzio. Una pausa sacra nel rumore del mondo. È tempo di ricordare, e ricordare non significa celebrare. Celebrare può significare esaltare, glorificare, dimenticare. Ricordare, al contrario, è dare corpo alla memoria, è riaprire la ferita della storia per chiedersi: dove siamo? Dove vogliamo andare? Questa data esige da noi un atteggiamento quasi spirituale: uno scioglimento interiore, una riflessione etica e politica. Ricordare significa soprattutto guardare la nostra storia in faccia e accoglierla come un progetto, non come un rimpianto.
2) Tre pilastri della memoria africana
Il primo gesto di coscienza storica africana, se vuole essere degno di questo nome, deve iniziare dove il popolo sanguina, dove il popolo urla, dove il popolo sogna ancora. E la filosofia africana, se vuole nascere dal grembo della nostra storia, deve ergersi su tre fondamenti della memoria che non si escludono a vicenda, ma anzi si illuminano a vicenda: la memoria del dolore , la memoria della grandezza e la memoria della promessa . Trascurarne uno significa distorcere il significato della nostra lotta, della nostra filosofia e della nostra politica. La costruzione del pensiero africano contemporaneo, politico e filosofico, richiede che la memoria non sia solo un archivio del passato, ma uno strumento di lucidità e azione.

3) L’ignoranza del passato
I giovani africani hanno poca conoscenza della storia del continente. E la colpa non è loro: è nostra, degli insegnanti, dei pedagoghi, degli intellettuali. Riduciamo la storia africana alla Conferenza di Berlino, al colonialismo europeo e all’attuale neocolonialismo. Non abbiamo insegnato in modo adeguato il lungo periodo della schiavitù – né occidentale né araba – né gli imperi africani, le cosmologie o i sistemi giudiziari. Passiamo direttamente dal dolore
4) La memoria del dolore
Il dolore africano è profondo, lungo, strutturale. La schiavitù era una disumanizzazione totale: deportazione forzata, separazione delle famiglie, sottomissione assoluta. Ma dimentichiamo i sette secoli di schiavitù araba, ancora più crudele nella sua ossessione per la castrazione degli uomini neri. Non si trattava semplicemente di servitù: era la cancellazione deliberata delle loro origini. La schiavitù europea fu una castrazione spirituale: la riduzione delle lingue africane in dialetti, delle credenze in superstizione, delle culture in folklore.
La violenza della tratta degli schiavi continuò durante il colonialismo europeo, che divise i territori con sovrani a Berlino e costruì imperi con ferro, frusta e croce. Il dolore continua nelle indipendenze tradite, dove le élite hanno sostituito i coloni ma hanno mantenuto gli stessi sistemi di oppressione. Come avvertiva Frantz Fanon, “il colonialismo non finisce con la bandiera nazionale, se non vengono trasformate le strutture interne del dominio”.
Il dolore africano non è solo un passato: è un presente prolungato, diventato norma. Lei abita i corpi affamati di Cabo Delgado, i corpi degli schiavi in Libia, i corpi degli annegati nel Mediterraneo. È la bambina che muore di fame nel nord del Mozambico mentre viene esportato il gas. Interpreta il giovane che vende il suo corpo in Sudafrica perché non ha alternative. È abitato dal vecchio combattente che assiste alla degenerazione del combattimento da lui stesso iniziato. Il ricordo del dolore non può essere negato o estetizzato. È un grido etico che deve risuonare nella coscienza storica africana. È, come direbbe Frantz Fanon, il ricordo della ferita che sanguina ancora e che, pertanto, non esige vendetta, ma giustizia e riparazione. Non solo giustizia giudiziaria (legale), ma giustizia etica e politica. Affinché la sofferenza della popolazione non sia vana, è necessario.
5) La memoria della grandezza
Ma l’Africa non è nata dal dolore. L’Africa non è solo una vittima: è stata ed è una fonte di civiltà. Prima della schiavitù e del colonialismo, esisteva un’Africa libera. L’Egitto, culla della filosofia e della matematica, non è un’eredità dei Greci, bensì dell’Africa nera. Lo sceicco Anta Diop smantellò scientificamente il mito di un Egitto “bianco” e rivendicò per l’Africa la centralità della civiltà.
Ma c’erano anche Ghana, Songhai, Zimbabwe, Monomotapa. Civiltà della scienza, della giustizia e della filosofia. Civiltà che hanno coltivato il Maat , il principio di equilibrio e verità, e che hanno formulato – oralmente – le prime carte dei diritti umani, come la Carta Kurukan Fuga. Avevamo imperi di conoscenza e organizzazione politica: l’Impero del Mali, con Timbuktu come centro di saggezza e scrittura; il regno del Congo, con una diplomazia strutturata; il regno di Monomotapa, simbolo di ricchezza e autogoverno. Prima della schiavitù, eravamo la culla del mondo.
Il ricordo della nobiltà africana, che il colonialismo ha cercato di cancellare e che il neoliberismo cerca di ridicolizzare, non è nostalgia, è uno specchio; è un antidoto al complesso di inferiorità. Si tratta di un archivio di saggezza pratica e metafisica, che può essere mobilitato per reinventare istituzioni e relazioni sociali.
Come ha insegnato Marcien Towa, la filosofia africana non dovrebbe essere una ripetizione dei modelli europei, ma dovrebbe salvare questa grandezza come possibilità politica e non come una vetrina folkloristica. Oppure, come ha detto Kwame Nkrumah, “l’unità dell’Africa è la continuazione della nostra passata grandezza, ora in chiave moderna”.
Non si tratta di negare gli errori del passato africano, ma di ricostituire il filo della nostra umanità negata, di una dignità sepolta. La nostra sfida è fare della tradizione una possibilità, un’utopia critica (Eboussi Boulaga) e non una prigione. Si tratta di tradurre la conoscenza ancestrale in strumenti di resistenza contro il cinismo moderno: emergere dalla notte coloniale senza cadere nell’oscurità della modernità complice (Frantz Fanon).
Ricordare significa richiamare la grandezza storica del continente. Insegna ai giovani che la storia dell’Africa non è una storia di servitù, ma una storia interrotta. Il dolore è stato lungo, è vero, ma non è un epifenomeno, non il fondamento.
6) La memoria della promessa
Ma la memoria africana non è l’archeologia del passato ormai tramontato. La vera memoria non ci invita a guardare indietro come se contemplassimo delle rovine. La vera memoria è il futuro ferito, ciò che avrebbe dovuto essere, ma non è ancora. La memoria come futuro ferito. Ma anche, come insegnerebbe Amílcar Cabral, è il dolore a fondare la necessità di “tornare alle fonti” – non per restarvi, ma per ripartire da lì con verità. Come ha detto Paulin Hountondji, è un’energia che richiede pianificazione.
In mezzo alla sofferenza emersero i profeti/visionari. Ritorno in Africa, di Marcus Garvey; WEB Du Bois e il federalismo; il panafricanismodi Nkrumah; il “rendez-vous du donner et du recevoir” di Senghor. Tutto indica un’Africa che ha riscoperto se stessa. Un’Africa che non vuole imitare l’Occidente, ma propone altri modi di pensare il tempo, il potere, l’umanità e il mondo.
La vera memoria non è guardare indietro, è guardare avanti verso ciò che non è ancora arrivato, ma deve arrivare. Più che ricordare ciò che è stata, l’Africa ha bisogno di ricordare ciò che ha promesso di essere. Il ricordo della promessa non è nostalgia, è responsabilità. Esige che la generazione attuale sia fedele non a ciò che ha ereditato, ma a ciò che ha sognato.
È questa memoria che deve alimentare una nuova filosofia politica africana, affinché non sia né copia né resistenza, ma invenzione e creazione che (ri)articola l’essere come relazione, il soggetto come essere-attraverso-gli-altri. È il ricordo dell’utopia, dei sogni interrotti, dei progetti incompiuti, dei profeti assassinati, dei canti mai cantati.
L’Africa ha una promessa da mantenere. Promettiamo di diventare un continente di uomini liberi, di donne integre, di giovani che non emigrano per morire in mare, ma che costruiscono qui il loro posto. Promessa di libertà, giustizia e pace. Questa promessa è stata fatta da Mondlane, da Lumumba, da Machel, da Cabral, da Sankara, da Nyerere, da Nkrumah (…). Ma quella promessa è stata sepolta dalla corruzione interna, dalle pressioni esterne e dall’indifferenza globale. Bisogna dissotterrarla. Dissotterratela come si dissotterrerebbe un corpo sacro: con riverenza, ma anche con urgenza. Fatela prosperare come idea e come pratica.
7) Ricostruire l’Africa oggi
Ristabilirla come base per una nuova filosofia africana, non imitatrice di sistemi stranieri, ma creatrice dei propri percorsi: una rottura con la colonialità, con l’avidità, con l’arroganza epistemica.La ricostruzione dell’Africa dipende dalla fedeltà a questa promessa non mantenuta. Ma questa fedeltà non è contemplazione, è azione. Sta ripensando l’istruzione, i partiti, i confini, i modelli di sviluppo. Significa rompere con l’imitazione e forgiare i nostri strumenti: politici, legali, epistemologici. Il ricordo della promessa è dunque una chiamata etica: o costruiamo ciò che abbiamo giurato ai nostri morti, o meritiamo il silenzio di coloro che devono ancora nascere!
Ciò che è in gioco oggi non è più solo la liberazione dal giogo coloniale o imperialista, ma la ricostruzione spirituale, istituzionale, culturale e ontologica dell’Africa come progetto per l’umanità. Il nuovo panafricanismo deve decolonizzare gli immaginari, le epistemologie e i paradigmi di sviluppo che gli stati africani hanno ereditato dall’Occidente e continuano a riprodurre. Ciò implica la costruzione di una propria ontologia africana, capace di pensare la politica al di là della matrice liberal-individualista che disintegra e frammenta il nostro tessuto sociale.
Il nuovo panafricanismo implica il ritorno a Nkrumah e la seguente affermazione: l’unità africana non è un sogno, ma una condizione affinché ogni Paese possa essere veramente libero. La sovranità continentale non è un lusso, è una necessità per controllare le risorse ed eviatre nuove schiavitù.
9) Nuovi venti africani
Oggi emergono nuovi profeti, soffiano nuovi venti, provenienti soprattutto dal Sahel. Sono imperfette, fragili, incomplete. Ma portano con sé qualcosa di nuovo: il rifiuto della subordinazione e la voglia di pensare e costruire l’Africa con le proprie mani.
I leader di Burkina Faso, Mali e Niger stanno sfidando lo status quo postcoloniale, espellendo le presenze militari straniere e rivendicando il diritto di rimodellare il destino dell’Africa con teste e mani africane. Questi leader – Ibrahim Traoré, Assimi Goïta, Abdourahamane Tchiani – non sono perfetti, ma sono segni rappresentativi e profetici di un’Africa che si ribella e resiste con fermezza alla necropolitica dell’Occidente (Achile Mbembe). Un’Africa che si rifiuta di morire; un’Africa che, nonostante tutto, continua a vivere.
9) L’appello finale
Il 25 maggio è un invito all’Africa a essere fedele al suo dolore, alla sua grandezza e alle sue promesse. Fedeli a Lumumba, Cabral, Biko, Sankara, Machel, Nkrumah (…); fedeli a coloro che resistono nel Sahel; fedele alla sua missione e alla promessa da realizzare: pace, progresso e felicità del popolo (Cabral).
Con la lucidità di chi ha vissuto la Storia dal di dentro, Pedro Pires (ex presidente di Capo Verde) chiese una volta: “Cosa ne avete fatto dell’indipendenza che abbiamo ottenuto con tanti sacrifici?” e Fanon ci aveva già detto: “Ogni generazione ha la sua missione: o la compie o la tradisce”. Forse abbiamo barato. Forse la nostra generazione non ha saputo preservare, né reinventare, il sogno di libertà che abbiamo ereditato dai nostri eroici caduti. Ma questo fallimento – e riconoscerlo è già un atto di lucidità – non può e non deve servire da scusa per i giovani di oggi.
La missione resta. Ferita, sì. Ma viva. E chiede continuità. I giovani africani di oggi non hanno il diritto di nascondersi dietro i nostri errori. La storia non aspetta. Ciò che è in gioco non si limita a momentanee rivolte o cambi di regime: è la libertà di tutti gli africani, oggi e domani. Lo devi – lo devi a coloro che morirono schiavi senza sepoltura; a coloro che morirono nella lotta per l’indipendenza senza vedere la nascita della patria/Africa; a coloro che, nelle strade e nei deserti del Sahel, ancora oggi resistono senza chiedere il permesso alla Storia. Ma c’è di più: lo dovete a voi stessi. E lo devi ai tuoi figli.
La nuova generazione sarà degna del nome di “gioventù africana” solo se saprà diventare profetica, non perché ripete il passato, ma perchè osa inaugurare un nuovo futuro.
10) La memoria è libertà
La memoria non è il passato, la memoria è il futuro ferito e la fedeltà alla promessa è il nome della nostra libertà!
IL testo integrale lo trovate a questo Link